Un voto periferico ma non marginale, quello del Trentino-Alto Adige. Certo, in quella regione la partita è sempre stata bloccata politicamente dai noti contenziosi linguistici, che pure negli ultimi decenni erano diventati pure contrattazioni lobbistiche fra comunità e centri di interessi. La Svp, il partito che aveva canalizzato la rappresentanza delle comunità tedesche, si era ormai assestato come partito istituzione, una sorta di Democrazia cristiana fuori tempo. Il Trentino-Alto Adige, infatti, è una delle aree del Paese dove la spesa pubblica, e dunque l’intermediazione politica delle risorse, è ancora molto rilevante nell’economia territoriale. Una spesa pubblica che, a differenza di quanto avviene nelle regioni meridionali, dove pure continua ad affluire una quota di finanziamenti consistente, nell’estremo Nord è gestita con una certa oculatezza, mediante cui i risultati pubblici si combinano agli interessi privati.
In questa prospettiva non stupisce che quelle aree siano rimaste sostanzialmente ibernate politicamente, in un gioco in cui, attorno alla Svp, ballavano gli altri partiti, senza peraltro alterare mai gli equilibri strutturali del territorio. Inoltre, proprio lo spirito di autonomismo, se non proprio di secessione, che continuava ad aleggiare nelle comunità germanofone, rendeva impraticabile un ruolo per una destra nazionalista e accentratrice quale era stata quella dei decenni precedenti. Ma da almeno vent’anni questo meccanismo si è rotto.
Da una parte, l’irruzione della Lega ha dato spazio a una componente reazionaria ma autonomistica, che ha cominciato a scavare alla base delle piattaforme politiche più tradizionali. In Trentino la vecchia palude democristiana si è scomposta, dapprima in tanti rivoli localistici, per poi convergere, di volta in volta, sui centri governativi. Per cui si è pendolato nel dualismo fra Prodi e Berlusconi negli anni Novanta, per virare in seguito nettamente sulla contrapposizione fra Pd e Lega. A Bolzano, invece, il partito istituzione della Svp ha retto, anche grazie a una rete di strutture sociali, come le casse di credito o le scuole professionali o, soprattutto, i consorzi agrari e le infrastrutture ambientali, che ne hanno garantito la rendita di posizione.
Lo specchio va in frantumi con il contagio sovranista. Persino nel placido e moderato Alto Adige, che aveva del tutto recintato ogni tentazione separatista delle sue frange più intemperanti e neofasciste, si comincia a entrare in fibrillazione. I ceti professionali e le proprietà agrarie si radicalizzano, come tutta l’area moderata dell’Occidente, per reclamare protezione e sostegno rispetto alla competizione globale. Inoltre, la destra si presenta non più con il volto centralizzatore e romano, ma con un messaggio arrembante di sedizione istituzionale per strappare risorse e ruolo a ogni spazio pubblico. Una ricetta che diventa incendiaria in un mosaico sociale che mantiene, comunque, ancora viva la memoria di una contrapposizione con lo Stato centrale.
E infatti è questo il dato su cui riflettere anche a sinistra: si innesta una reazione a catena che porta l’intera comunità altoatesina a resettare i vecchi equilibri, accarezzando l’idea di conquistare margini di contrattazione più convenienti con lo Stato nazionale. I risultati della consultazione, svoltasi domenica 22 ottobre, mostrano una tendenza insidiosa. La frammentazione cresce vertiginosamente, indicando una strutturale predisposizione all’autorappresentazione di ogni segmento sociale. Un processo che potrebbe risultare interessante per una sinistra in grado di giocare in mare aperto – cosa che ancora non è.
In Trentino, infatti, tutto si gioca nella competizione fra Lega e Fratelli d’Italia, con un’alternanza che vede il partito più esposto al governo a Roma penalizzato nello spostamento a destra, che rimane rilevante. In Alto Adige, invece, si consuma progressivamente il moloch della Svp, che libera forze che si radicalizzano prevalentemente sulla destra etnica e linguistica, facendo emergere un predominio delle identità germanofone che appiattiscono ogni proposta nazionale. Persino il partito della premier, che gode ancora di una spinta inerziale forte, non supera il 6%, risultando la prima lista di lingua italiana. Mentre si affermano formazioni tutte con una chiara matrice rivendicazionista etnica, che ripropongono la sepolta questione nazionale.
La spinta reazionaria della radicalizzazione del ceto medio incontra la pretesa di rinegoziare le ragioni di un legame nazionale, che risulta meno conveniente nella congiuntura economica negativa. Non a caso, in questo solco convergono anche motivazioni più generali come la presenza dei no vax, che contestano proprio l’idea di una sicurezza e assistenza nazionale.
Il dato che emerge, e su cui la sinistra dovrebbe ragionare, per aprire una vera campagna di discussione non solo locale, è che il voto, in quella parte di estremo Nord del Paese, rende visibile come la destra stia sempre più diventando un apprendista stregone che evoca spinte e istinti non governabili. Paradossalmente, è proprio la spregiudicatezza, e l’insipienza politica di questa destra, a riproporre la questione dell’unità nazionale. Non tanto nella versione dell’autonomismo leghista, sempre incline a una gestione speculativa del consenso, quanto di un’eccitazione delle pulsioni più estreme e individualiste, che la componente meloniana sta innestando e che, localmente, si combinano con la pancia peggiore del Paese: le reti malavitose al Sud, le identità secessionistiche al Nord.
Riproporre una questione nazionale attorno a cui ricostruire un’idea di Paese, con un ruolo propulsivo dello spazio pubblico che diventi impresario e organizzatore di forme reali di partecipazione e autogoverno, sarebbe una straordinaria opportunità per una sinistra esangue in cerca di autore. Accettare la sfida di ripensare il Paese, e persino la Costituzione, alla luce di un’idea di governance ma anche di partito, orizzontale e condivisa, come la rete dopo cinquant’anni di esperienza ci insegna, diventa oggi forse l’ultima chance per entrare nel secolo dell’interattività per chi rimane ancora aggrappato al secolo del fordismo.