Tutto sommato sarebbe stato preferibile che l’Unione sovietica fosse rimasta in piedi, con le sue terribili contraddizioni (dovute essenzialmente al fatto che un capitalismo di Stato si presentava come la patria del socialismo), anziché condurre, com’è accaduto, a quella frammentazione di nazionalismi in lotta tra loro che ne hanno preso il posto. L’ultimo drammatico riaccendersi del conflitto in Medio Oriente, ha relegato in secondo piano non soltanto la guerra in Ucraina, di cui non si parla quasi più, ma l’intero contesto dei focolai presenti nel mondo ex sovietico, di cui peraltro si è sempre parlato poco.
Eppure, alla fine del settembre scorso, l’Azerbaigian ha posto fine all’“anomalia” della enclave armena al suo interno, riprendendosi il Nagorno Karabakh (vedi qui). Risultato: circa centomila profughi arrivati in Armenia da questo territorio conteso, per il controllo del quale, dal 1992 a oggi, c’erano state già due guerre guerreggiate e un’infinità di tensioni minori. La cosa singolare è che garante di uno status quo faticosamente concordato sarebbe stata la Russia di Putin, che avrebbe dovuto prendere le parti dell’Armenia e invece – forse perché ci sono molte altre gatte da pelare sullo scacchiere internazionale – se n’è infischiata. Al punto che il governo armeno, sentendosi tradito, ha dichiarato di avere commesso un grave errore strategico ad avere puntato sul sostegno russo, rendendo attiva la propria adesione alla Corte penale internazionale, la stessa che di recente ha emesso un mandato di cattura contro Putin, che adesso non potrà più recarsi in Armenia senza il rischio di essere arrestato e consegnato all’Aia. A complicare la faccenda, c’è che l’Azerbaigian, a sua volta, ha una sua regione occidentale priva di continuità territoriale con Baku: il Naxçivan, raggiungibile mediante il corridoio di Zangezur, che passa per l’Armenia, o con un giro attraverso l’Iran (la cui via del resto è chiusa dopo il conflitto azero-armeno del 2020).
Andiamo adesso nella non lontana Georgia: dopo la guerra dell’agosto 2008 intorno alle regioni separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia, la Russia occupa il 20% del territorio georgiano. Una situazione, questa, che a meno di sorprese potrebbe dare luogo a un parallelismo con quanto accadrà in Ucraina, quando finalmente ci si rassegnerà a trattare un “cessate il fuoco”. Difficile pensare che gli ucraini non dovranno fare concessioni in termini territoriali e, tra queste, appare praticamente certo che la Crimea (occupata già dal 2014) resterà alla Russia.
I filo-russi, o gli anti-occidentali a oltranza, sostengono che la causa prima di quanto è accaduto e sta accadendo nelle repubbliche ex sovietiche dipende dalle intrusioni dell’Europa e degli Stati Uniti, che hanno fatto di tutto per portare quelle regioni nella loro orbita. Questo è vero solo fino a un certo punto. Le cosiddette “rivoluzioni di colore” (odiatissime da Putin) sono state anche e soprattutto delle rivolte popolari spontanee; e a invalidare quella tesi, se assunta nei suoi termini radicali, c’è proprio il caso sopra citato dell’Armenia e dell’Azerbaigian, dove non c’è stata una qualche iniziativa filo-occidentale, e anzi era proprio la Russia arbitra del contenzioso tra i due Paesi.
E allora? Quale spiegazione dare del ritorno di nazionalismi a sfondo etnico che funesta quella parte del mondo, a partire dalla dissoluzione dell’Unione sovietica una trentina d’anni fa? Perché non potrebbero vivere in pace con le loro rispettive minoranze, su uno stesso territorio, delle maggioranze – tra l’altro diverse tra loro spesso soltanto per ragioni di lingua – che potrebbero trovare un accordo sui loro diritti reciproci, un po’ come accaduto in Italia con il Sud Tirolo? Perché questa tendenza alla guerra perpetua, nel complesso chiaramente aggravata, più che mitigata, dalla Russia di Putin?
Anche il discorso oggi prevalente in Occidente sulla cosiddetta “autocrazia” lascia però il tempo che trova. Non si tratta infatti soltanto di un moto d’imperio dall’alto; c’è anche un movimento dal basso che consente a forme di pulizia etnica, con gradi più o meno elevati di ferocia, tra piccoli Stati o entità statali autocostituite, che, a guardare bene, hanno una natura sociopolitica tra loro molto simile. Si tratta di non-democrazie, o di democrazie molto imperfette, basate su circoli oligarchici e potentati economici venuti fuori dai tempi dell’Unione sovietica. Per fare un esempio, in Azerbaigian l’uomo forte si chiama Ilham Aliyev: figlio del satrapo postsovietico precedente, fu eletto presidente nel 2003 (non senza contestazioni e irregolarità rilevate dagli osservatori Osce), poi riconfermato ininterrottamente, fino al suo attuale quarto mandato con l’86% delle preferenze.
Certo, nessun sistema democratico è al riparo dal suo deterioramento o dall’essere un puro e semplice effetto di facciata. Ma, anche a voler seguire la dottrina di Gaetano Mosca sull’essenza naturaliter elitaria o oligarchica di qualsiasi regime politico, si danno il più e il meno. Per non scontentare coloro che a proposito dell’Europa e degli Stati Uniti, non del tutto a torto, parlano di “post-democrazia”, diremo quindi che i Paesi usciti dalla dissoluzione dell’Unione sovietica sono fermi a uno stadio pre-democratico, intendendo con ciò che hanno paradossalmente realizzato una rapida saldatura, saltando qualche passaggio, tra un sistema post-totalitario – com’era quello post-staliniano – con una forma particolarmente spinta di post-democrazia; e che questo “pre”, arrivato presto al suo “post”, potrebbe essere l’annuncio, in senso molto pessimistico, di un analogo destino generale della democrazia nel mondo. Dopotutto, il fenomeno Trump va appunto in questa direzione: un tycoon che mette su un movimento eversivo rispetto alla tradizionale dialettica democratica tra “destra” e “sinistra” com’eravamo abituati a vederla.
I regimi che hanno fatto seguito alla fine dell’Unione sovietica appaiono allora come lo scherzo di una storia di lunga durata (proprio il contrario del “secolo breve”) che portava compresse dentro di sé tutte le contraddizioni tipiche di una vicenda a più velocità, segnata cioè da un coacervo di tempi storici differenti, moderni e insieme arcaico-tradizionali (l’industrializzazione a tappe forzate e il culto del “piccolo padre”, per esempio), precipitati oggi in una pluralità di tradizioni culturali spesso “inventate” nella loro contrapposizione ad altre di segno diverso. È dal prolungato congelamento dei tempi storici – all’interno, dapprima, di un internazionalismo che riteneva del tutto pacifico assegnare a questa o quella regione lo status di repubblica autonoma, sotto il principio unificante di un socialismo federativo, e in seguito nell’ambito di una centralizzazione assoluta come quella staliniana – che è derivato un loro successivo scomposto scongelamento nei molti rivoli dell’etno-nazional-populismo contemporaneo.
Il punto è che se crolla l’intero mondo costruito intorno al mito sovietico, ci si può poi almeno aggrappare alla zattera nazionalista (anche su scala ridotta, come nel caso di alcuni separatismi), pur di non restare privi di un appiglio ideologico. Tanto più che nel declino degli Stati-nazione, a cui si assiste da tempo (dovuto a un insieme di fattori che qui non possiamo affrontare), una soluzione a portata di mano può essere quella di frammentarsi in singole entità statuali. O, al contrario, di riprendere a fantasticare di un impero, come nel caso della Russia di Putin. Ma ambedue le formule sono peggiori dello stalinismo precedente. Perché questo, pur nei suoi orrori, aveva ancora dentro di sé l’utopia rovesciata, di cui questi nazionalismi sono oggi soltanto un miserabile sottoprodotto.