Tutto sbagliato, tutto da rifare. La vecchia battuta si applica perfettamente alle scelte del governo Meloni in campo economico. Invece di sostenere i salari (continuiamo ad avere il primato negativo in Europa), il governo è riuscito a stoppare in parlamento la legge sul salario minimo; una legge pensata per tutelare il Paese dalla piaga del lavoro povero senza indebolire la contrattazione, una legge che manca da troppi anni visto che siamo tra i pochi in Europa a non averla ancora, con buona pace dell’economista “indipendente” Renato Brunetta, oggi alla guida di un Cnel, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, mai così organico a un esecutivo.
Invece di investire sulla lotta alle diseguaglianze e sull’aumento progressivo delle povertà (assolute e relative) il governo ha cancellato il reddito di cittadinanza senza sostituirlo – almeno per ora – con niente. Invece di investire su una sanità pubblica già al pronto soccorso per i tagli e per gli effetti della pandemia, il governo gioca con i numeri e nasconde i tagli reali dietro un’operazione alla “carta vince, carta perde”. In realtà, le somme stanziate per la salute dei cittadini, nonostante le dichiarazioni della premier, sono insufficienti e soprattutto risultano già erose dall’inflazione, come ha spiegato con dovizia di cifre e argomentazioni Carlo Cottarelli, che di manovre e bilanci pubblici se ne intende.
Altro terreno scivoloso (come “terzogiornale” ha già spiegato qui) riguarda il contesto in cui questa manovra 2024 si colloca, ovvero le previsioni sull’andamento reale dell’economia nei prossimi mesi. Lo hanno detto, in questi giorni, quasi tutti gli esperti e i commentatori: le previsioni del governo sulla crescita dell’anno prossimo sono troppo ottimistiche e per raggiungerle non servirà certo la spinta della miniriforma dell’Irpef che al massimo, secondo quanto calcolano gli esperti, “arriverà a 20 euro al mese, un caffè per giorno lavorato”, una felice immagine usata dal giornalista economico Roberto Petrini su “Avvenire”. La Nadef ha fissato come obiettivo del Pil del prossimo anno quota 1,2%, in contrasto con quasi tutti i centri di ricerca e le istituzioni internazionali: vale la pena ricordare che il Fondo monetario internazionale stima 0,7%, la Commissione, l’Ocse e la Banca d’Italia arrivano a 0,8, e il centro studi Ref calcola solo lo 0,5% di crescita.
Insomma, se questo è il contesto e se tutte queste sono le obiezioni e le contestazioni dei sindacati (che pare si stiano riavvicinando), e dei partiti dell’opposizione in vista della manifestazione dell’11 novembre, c’è da capire un po’ più a fondo dove casca l’asino dell’esecutivo Meloni-Giorgetti-Salvini. Un punto è molto impopolare, ma noi ne vogliamo parlare lo stesso perché lo riteniamo fonte di tutti gli errori. Non si tratta, infatti, di accusare il governo di avere sbagliato le previsioni sulla crescita, né di operare un nuovo potente ridimensionamento del welfare. Per le previsioni conta ovviamente la qualità degli economisti di cui il governo si serve. Sbagliare è umano. Può succedere anche ai migliori centri di ricerca. Basti pensare alle grandi crisi finanziarie degli ultimi anni. Quella storica del 1929 era stata prevista solo da Keynes. Le crisi contemporanee, quella dei subprime e poi quella più recente sono legate alla speculazione, ma nessuna mente economica (salvo eccezioni che si contano sulle dita di una mano) pare le avesse previste. Sono arrivate come il Vajont.
Ma la cosa che ci sembra più grave di questo esecutivo di destra neoliberista e corporativo, riguarda l’insistenza con cui si reiterano scelte sbagliate e che avranno conseguenze molto pesanti sui conti pubblici di un Paese che già soffre della sindrome cronica del debito. Sulle tasse il quadro, per chi volesse vedere da vicino, è chiarissimo e preoccupante. Si continua a navigare con la bussola del “meno tasse per tutti”, che poi in realtà, come abbiamo visto già dai tempi di Tremonti e Berlusconi, significa meno tasse solo per i più ricchi. Uno Stato che non ha le risorse per finanziare i servizi essenziali che garantiscono diritti fondamentali (e costituzionali), si prepara al suicidio tagliandosi le entrate fiscali. Conta di più la propaganda elettorale sempre attiva, che un serio ragionamento sul futuro. Genitori che aumentano la paghetta ai figli, sapendo che poi non si avranno i soldi per comprare i libri, iscriverli in palestra, curarli, farli studiare.
Contro la logica del meno tasse per tutti e della flat tax, la tassa piatta che rappresenta uno di più grandi imbrogli dell’età contemporanea, si sono levate solo poche voci. Perfino i sindacati sembrano timidi su questo punto, perché la riduzione delle tasse rientra nelle richieste storiche del movimento dei lavoratori e si lega alla battaglia annosa sulla riduzione del cuneo fiscale. Anche per spingere l’iscrizione ai fondi pensione si è fatto leva sui vantaggi fiscali. Stesso discorso per incentivare le scelte che riguardano le assicurazioni sanitarie private, aziendali o di categoria.
Un liberale come Innocenzo Cipolletta, è uscito invece dal coro e ha scritto che non c’è spazio oggi per una riduzione della pressione fiscale, viste le esigenze di spesa pubblica e la necessità di ripercorrere un sentiero di riduzione del debito pubblico. “Anzi – secondo l’economista ed ex dirigente industriale – è tempo di puntare su un sostanziale recupero dell’evasione fiscale, mentre è opportuno rinunciare a ipotesi di riduzione delle tasse per categorie di reddito medio. Ne è un segnale la crescita dello spread da quando è stato pubblicato il Nadef, con le sue stime di (poca) crescita del Paese e di arresto nella diminuzione del rapporto debito pubblico su Pil nei prossimi anni.
Lo spread ha iniziato ad aumentare fino a superare i 200 punti base. Il motivo del nervosismo sui mercati finanziari è evidente: la scarsa crescita dell’economia non favorisce una riduzione del peso del debito. La domanda se davvero l’Italia ha bisogno di una flat tax, esperimento da cui altri Paesi stanno tornando indietro, circola da tempo tra gli studiosi che cercano inutilmente di convincere Salvini. Sul sito della “Voce.info” ne hanno parlato in molti (tra questi Tommaso Monacelli nel 2022). Sul sito della campagna di “Sbilanciamoci”, Mikhail Maslennikov, matematico e analista di policy presso Oxfam Italia, “la tesi governativa che una flat tax a un’aliquota bassa agevolerebbe la formazione di nuovo reddito e si autofinanzierebbe grazie alla crescita indotta delle entrate fiscali (il famoso effetto Laffer) non ha alcun robusto riscontro empirico, a fronte dei succitati elevati costi per le casse pubbliche e maggiori benefici per i redditi più elevati. In effetti, nei Paesi in cui il modello di flat tax è stato implementato gli effetti di incentivo all’offerta di lavoro e agli investimenti, connessi in via teorica alla riduzione della pressione fiscale, si sono raramente manifestati e sono stati comunque inferiori all’impatto sul gettito delle minori aliquote.
Un’altra voce critica è quella di Maria Cecilia Guerra, studiosa di fisco e impegnata politicamente nella battaglia per l’eguaglianza. Le politiche fiscali possono essere fonte di ulteriori diseguaglianze? “Il fisco – risponde Guerra – entra in gioco principalmente per la banale ragione che senza un’adeguata pressione fiscale l’intervento pubblico non può essere adeguatamente finanziato. Ed è evidente che questo è un elemento cruciale perché solo interventi pubblici universali permettono di superare la discriminazione economica all’accesso, quando questo è lasciato al solo mercato”. “Questa è la ragione fondamentale per opporsi a tutte le ipotesi di flat tax – a regime, in prospettiva e incrementali – che hanno riflessi non solo in termini di ampliamento delle diseguaglianze, in quanto riducono il ruolo redistributivo del prelievo, ma anche in termini di gettito. Sono ipotesi che, bisogna averlo molto chiaro, si reggerebbero solo su imponenti tagli della spesa di welfare”. C’è qualcosa da aggiungere? Sì: aboliamo la flat tax.