L’appello del governo a non presentare nessun emendamento alla legge di Bilancio “trasforma il parlamento in un soprammobile”. La sintesi di un deputato del Pd rende piuttosto bene l’umore. Non è infondata la protesta dei parlamentari di opposizione, insorti contro l’idea di Giorgia Meloni e del suo ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, di un passaggio solo rituale nelle austere aule di Camera e Senato per la manovra finanziaria. Anche se, come sappiamo, nessuno è vergine, nessuno nella politica nazionale può lanciare la prima pietra, a proposito di forzature nei confronti delle procedure parlamentari, di restrizione di tempi e spazi del confronto, che sempre più spesso diventa reale solo quando si aprono delle crepe nella compattezza interna delle coalizioni che governano. Sono gli effetti della tragicomica avventura del bipolarismo all’italiana, il cui percorso, come sappiamo, non si è ancora concluso come meriterebbe, e promette nuovi scossoni agli equilibri democratici costituzionali con il possibile contestuale varo dell’autonomia regionale differenziata e del presidenzialismo (o “premierato”, fratello scemo della vecchia idea della destra nera italiana).
Stavolta però le motivazioni dietro il discusso richiamo all’autocensura parlamentare non sono solo nella pretesa del governo di sottomettere l’istituzione parlamentare, come si fa da troppo tempo con decreti a raffica e voti di fiducia in serie. Né sono solo legate alla difficoltà di mantenere la coesione interna alla maggioranza quando arriva il momento del cosiddetto assalto alla diligenza, la carica degli emendamenti destinati a favorire interessi particolari, proteggere minime porzioni di territorio, dare visibilità momentanea a oscuri peones fra Montecitorio e palazzo Madama.
Il problema è strutturale e riguarda lo stato di salute dell’Italia e della sua economia. Nelle fasi negative, si riaccende periodicamente l’allarme sulla sostenibilità del debito pubblico, e la linea del governo Meloni è ispirata a una prudenza estrema, del resto rivendicata dalla nota ufficiale diffusa dopo il Consiglio dei ministri che ha licenziato la manovra: il disegno di legge “è in linea con l’approccio prudente, responsabile e realistico dei precedenti provvedimenti economici”. Certo, in questa fase di guerra sempre più globalizzata, fino a quando la linea di Meloni e soci rimarrà allineata in modo ferreo alle indicazioni geopolitiche di Washington e di Bruxelles, scossoni troppo bruschi dall’esterno sono improbabili. Ma le polemiche lanciate dalla destra italiana all’indirizzo del commissario europeo Paolo Gentiloni mentre è in discussione il nuovo Patto di stabilità, gli incontri “chiarificatori” del ministro dell’Economia con le agenzie di rating, le speranze espresse dallo stesso Giorgetti di una “buona accoglienza” della manovra da parte “dell’Unione europea e dei mercati” – sono tutti segnali di una forte preoccupazione per la tenuta del tessuto economico e dei conti pubblici, per quella che il “Financial Times” definisce la “vacillante crescita” italiana.
I rischi li ha indicati il governatore uscente della Banca d’Italia proprio in un’intervista al quotidiano anglo-nipponico: “Ovviamente – ha ammonito – bisogna capire perché i mercati potrebbero essere preoccupati. Non penso che sia una speculazione contro il Paese. Penso che sia fondamentalmente una preoccupazione (…) per il tasso di crescita potenziale a lungo termine dell’economia”. A giudizio di Visco, “bisogna rispondere ai mercati con due cose: in primo luogo, una visione del piano di crescita a lungo termine e, in secondo luogo, l’azione a breve e medio termine per quanto riguarda gli squilibri fiscali”.
Il dito è sempre puntato contro le politiche troppo espansive, che mettono a rischio la sostenibilità del debito, delle quali, per la verità, non c’è traccia nell’azione del governo, neppure sul piano della riforma fiscale, per la quale si procede adelante ma con juicio, come ha notato lo stesso Visco, ricordando l’infelice precedente britannico dei tagli di tasse ai super-ricchi, varati e ritirati nel giro di dieci giorni: “Forse Liz Truss era lì per mostrare come non commettere errori nella comunicazione”, ha spiegato.
Nel merito, in attesa di valutare nel dettaglio i testi e le tabelle dei provvedimenti, dalle anticipazioni sappiamo che la manovra cancella l’odiato acconto di novembre per le partite Iva fino a 170mila euro (notare la cifra importante, tra i beneficiati ci sono livelli professionali e redditi anche molto alti); rifinanzia per un altro anno il taglio del cuneo fiscale; interviene con un lieve alleggerimento dell’Irpef per i redditi fra 15 e 28mila euro, quelli che pagano maggiormente sia l’assalto dell’inflazione sia l’indebolimento progressivo dei servizi pubblici, a partire da quelli a tutela della salute.
Quest’ultimo è il settore sul quale si consuma gran parte dello scontro fra maggioranza e opposizione: le opposizioni denunciano i tagli e la crisi progressiva della sanità pubblica, il governo fa sapere che vi ha destinato risorse aggiuntive, ma non è difficile prevedere che non saranno considerate sufficienti a invertire la tendenza. C’è spazio anche per un pizzico di slancio ideologico tradizionale dell’esecutivo di destra-centro: un miliardo di euro a favore delle famiglie numerose e per alzare il tasso di natalità. Lo Stato pagherà i contributi delle mamme lavoratrici con due figli, più a lungo se con tre o più figli, e rafforzerà il bonus asili nido (e per le Regioni nelle quali, soprattutto al Sud, non esistono o quasi? l’autonomia differenziata, con la pressione leghista per aggirare lo scoglio dei “Livelli essenziali delle prestazioni”, per ora non promette bene).
E ancora: ci sono i bonus per le imprese che assumono e una strizzata d’occhio ai settori d’impresa più refrattari all’innovazione con il rinvio di plastic tax e sugar tax. Ma la bandiera che forse meglio rappresenta la linea delle forze governative è il finanziamento triennale, per ben dodici miliardi, destinato al mitico ponte sullo Stretto di Messina, quello che fino a pochissimi anni fa l’attuale ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, non voleva, perché secondo molti ingegneri “non sta in piedi” e soprattutto perché “sia in Sicilia sia in Calabria i treni non ci sono e vanno a binario unico”. Poi ha cambiato idea, ma il video delle sue dichiarazioni del 2016 è sempre molto popolare in rete. E fa un certo effetto pensare che per varare una manovra che spinge questa grande opera costosa e di dubbia fattibilità sia stato necessario farla precedere da un voto a maggioranza qualificata delle Camere per autorizzare uno scostamento di bilancio. La scommessa ha una posta molto alta, il cui costo rischia di ricadere a lungo sulle casse dello Stato, cioè su tutti noi.