Sotto i termini di “terrorismo” e “terroristi” è compresa una varietà di fenomeni violenti che si fa fatica a tenere insieme. Si potrebbe dire che il loro tratto comune sia dato soltanto da ciò che ci procura angoscia. Se in Francia un ragazzo spiantato, di origini cecene, aggredisce dei professori fuori da una scuola e ne uccide uno, questo è un atto di terrorismo; così come lo è, su più grande scala, l’attacco di Hamas contro i kibbutz israeliani con una strage di civili senza precedenti e la cattura di ostaggi. In effetti, però, non vi è qualcosa che a prima vista unifichi le due vicende, tranne una generica ideologia islamista (che sappiamo a sua volta variegata) implicata sia dall’una sia dall’altra.
Se una definizione più estesa di “terrorismo” può essere data, questa ha a che fare con un certo modo di concepire la violenza (e perfino la ferocia) come un mezzo di comunicazione. Può sembrare strano che si consideri una forma di interruzione di ogni dialogo come una comunicazione; ma, a pensarci bene, è proprio in un ordine comunicativo che devono essere inseriti i diversi fenomeni cui si dà l’etichetta di terroristici. Nell’episodio individuale del ragazzo ceceno, sospeso nel limbo di coloro che sono stati accolti ma non del tutto accettati dalla République (il padre fu rispedito indietro all’arrivo, la moglie e i suoi cinque figli furono invece accolti: ricordiamo che la Cecenia fu, per un periodo non breve, il terreno di una rivolta separatista islamica, cui seguì una terribile repressione da parte della Russia di Putin), siamo al limite del caso psichiatrico, evidentemente; e tuttavia il suo gesto può essere considerato come una fuoriuscita dall’anonimato e da una zona di “non diritto” e di “non cittadinanza”, a cui la radicalizzazione islamista offre uno sbocco. Con questo non si vuole giustificare il suo gesto, ovviamente, soltanto inquadrarlo come una sorta di allarme disperato in cui, collegandosi a un contesto internazionale come quello del conflitto israelo-palestinese, si afferma un proprio terribile: “Io ci sono”.
Allo stesso modo – su una scala molto più ampia, e con un piano in mente –, con l’attacco del 7 ottobre, la dirigenza di Hamas ha inteso comunicare che non ci stava a rimanersene chiusa dentro Gaza e ad amministrare uno status quo risultante da anni e anni di sconfitte e sottomissione. Così – un po’ come gli indiani, o meglio i nativi americani, che uscivano dalle riserve devastando e massacrando – hanno bucato le difese israeliane per massacrare e devastare, e soprattutto per fare dei prigionieri mediante i quali cercare di trattare. Se non c’è un contenuto comunicativo nella presa di ostaggi, dove altro trovarlo? L’ostaggio, proprio in quanto oggetto di un ricatto, si colloca di per sé all’interno di una relazione con una controparte. E nell’azione di Hamas c’è anche – forse soprattutto – dell’altro: in un certo senso, parlare a nuora perché suocera intenda, cioè attirare l’attenzione internazionale su Gaza e Israele, anche quella dei propri alleati e sostenitori, affinché la questione palestinese sia di nuovo posta all’ordine del giorno.
Se si coglie questo lato della cosa, non è che la ferocia sia meno feroce. Semplicemente viene sottratta alla pura irrazionalità con cui si vorrebbe esorcizzarla. Le azioni terroristiche assumono significati diversi nei differenti contesti. Non sono il prodotto di una furia belluina. Dovremmo saperlo noi italiani che siamo stati funestati per decenni dagli attentati: anzitutto dalle stragi indiscriminate che, spargendo il terrore, intendevano creare una situazione favorevole a un colpo di Stato; poi dagli omicidi mirati e firmati dai combattenti di una presunta lotta armata, che tentava di uscire da una prospettiva priva di sbocchi facendo “rumore”; infine dallo stragismo mafioso, in parte in combutta con aspetti residuali della precedente indistinta “strategia della tensione”.
Da un punto di vista politico, allora, come si può tradurre questa consapevolezza teorica del terrorismo in quanto fatto comunicativo? Diciamo che la risposta può consistere nel fare o non fare il gioco del terrorismo, cioè nel replicare o no con mezzi a loro volta terroristici. Si dà un ampio spettro di possibilità in proposito: dalla pratica coerente della non-violenza – che punta al più radicale depotenziamento dell’aggressore – fino alla rappresaglia più o meno spinta, la cui forma estrema, da parte nazista, era quella di dieci o venti dei “loro” per ogni “nostra” vittima o il radere al suolo interi villaggi. In mezzo, c’è tutta una modulazione di risposte possibili.
Ora, nel momento attuale del conflitto israelo-palestinese, appare evidente come ogni idea di “farla finita con Hamas” implichi una posizione all’interno delle possibilità di risposta molto vicina a quella stessa del terrorismo. Ciò dipende in primo luogo dalla conformazione del terreno. Gaza è una striscia in cui vivono accalcati oltre due milioni di palestinesi, e non c’è solo questo: Hamas ha costruito nel corso degli anni una rete di cunicoli sotterranei, nella quale sono adesso probabilmente custoditi gli ostaggi, e in cui nessun esercito potrebbe addentrarsi a meno di non provocare una serie di stragi (mediante l’uso di particolari bombe o addirittura di gas asfissianti). Ciò avrebbe la conseguenza di una probabile estensione della guerra, considerando che difficilmente l’Iran resterebbe a guardare.
Israele, in altre parole, non potrà dare una risposta, che consisterebbe in quello che potrebbe essere detto un terrorismo di Stato, senza pagare un prezzo altissimo. Già i bombardamenti a tappeto che sta compiendo – con l’inevitabile coinvolgimento dei civili, spinti verso un’impossibile evacuazione – si approssimano pericolosamente a quel punto di non ritorno che trasforma la vittima in aggressore e l’aggressore in vittima. Si tratta di una forma di “interazione cumulativa”, come l’avrebbe chiamata Gregory Bateson, che consiste in un accrescimento della forza della propria risposta che ha come effetto un incremento progressivo della forza della controrisposta dall’altro lato, secondo una spirale perversa. Una prospettiva più ragionevole consisterebbe nel rendersi conto che non si potrà risolvere la questione palestinese se non riprendendo la via di una trattativa ad ampio raggio. Certo, quando sarà possibile. Intanto, però, si dovrebbe cominciare a trattare con Hamas il rilascio degli ostaggi. Che sarebbe anche ciò che vorrebbero i loro amici e familiari.