È difficile “schierarsi” – come si diceva una volta – da una parte o dall’altra nei conflitti che avvengono in questi anni: perché, tramontata ogni forma di internazionalismo, si tratta per lo più di scontri fra nazionalismi autoritari ed estremi, quando non tra diverse sfumature di fascismo, luogotenenti del nulla. Così, se è impossibile solidarizzare con la deriva violenta di Hamas, non si può provare alcuna simpatia per il governo israeliano, che ha pesantissime responsabilità nella terribile situazione attuale. Sono già stati ricordati, in questo giornale, il procedere della colonizzazione israeliana in Cisgiordania, le condizioni di vita a Gaza, l’apartheid a cui sono sottoposti ovunque i palestinesi, la provocatoria dichiarazione di Gerusalemme come capitale di Israele, le uccisioni e le aggressioni nei villaggi palestinesi. Si può aggiungere qualcosa su un fenomeno più generale, e cioè l’abbandono di qualsiasi tentativo di coesistenza e convivenza tra i due popoli e il procedere di un processo di colonizzazione diffuso, che ha provocato quegli effetti misti di padronanza, umiliazione e risentimento intollerabile, che Frantz Fanon aveva messo in rilievo nel secolo scorso.
La colonizzazione – riteneva Fanon – comporta la radicale reificazione del colonizzato. I coloni, in questo caso gli israeliani estremisti che hanno espanso continuamente il loro potere anche nelle aree destinate in teoria a uno Stato palestinese, non sono solo i proprietari di beni materiali e di armi micidiali: si ritengono e si affermano detentori di un modello identitario, che è l’unico a essere veramente “umano” di fronte all’esistenza animalesca dei colonizzati, “belve” da tenere a freno. Il colono israeliano è colui che fa, e agisce producendo storia, dalla parte della modernità e del progresso: è il Signore capace di progetto e trascendimento, dinanzi a cui il palestinese umiliato nei suoi ghetti da sottouomo non è che il Servo, reso schiavo e strumento dell’operare altrui: “Il colono fa la storia” (Fanon). L’identità del colono israeliano è propriamente umana e l’umano si confonde col suo essere e agire; il palestinese viene “orientalizzato” e – come diceva Edward Said – appartiene invece a un mondo elementare, inespressivo, capace solo di istinti furiosi e belluini da addomesticare ed educare: deve essere negato, superato, o – nel migliore dei casi – appunto educato, perché acceda a una forma di vita paragonabile a quella dell’uomo.
I coloni israeliani hanno praticato una forma di sottomissione che non fa che ripetere quella che per secoli noi occidentali, alfieri della democrazia e del mondo libero, abbiamo messo in atto nel resto del mondo e anche contro gli ebrei presenti all’interno delle nostre nazioni. L’immagine dell’altro, nella cultura occidentale, ancora prima di connotarsi in senso positivo o negativo, suppone un pregiudizio di esclusione: quali che siano le sue doti e i suoi difetti, l’altro è prima di tutto estraneo, non ha con me una comune misura di umanità. L’Io occidentale si definisce per negazione; la sua identità si afferma per contrapposizione. Di rado ci troviamo di fronte a un reale riconoscimento della differenza del colonizzato. Su di esso viene proiettata un’ombra, una qualità temibile e ambigua, che appartiene all’inconscio dell’osservatore occidentale: l’altro è la tenebra della mia luce, la parte interdetta, un “Sé sotterraneo” o complementare. Su questo sfondo di negazione, costruisco l’apparenza luminosa della mia soggettività, mentre l’altro si riduce a fantasma di tutto ciò che ho escluso dal processo di formazione dell’Io.
Lo sguardo occidentale, che i coloni israeliani sembra abbiano fatto tristemente proprio, invece di ritenerlo responsabile della tragedia della Shoah, sorge da una coscienza che si sente sovrana: “(…) L’orientale è contenuto e rappresentato da un sistema di categorie preesistenti. Ma da dove provengono queste categorie?” (Said). L’interpretazione è indissociabile dalla volontà di potenza. Il palestinese viene espulso dal tempo storico. Il tempo storico unilineare e irreversibile appartiene ai dominatori, all’élite che determina il corso della storia; mentre il palestinese è consegnato a un tempo ciclico, ripetitivo, incapace di innovazione. Il tempo dei dominatori è quello della produzione (di merci, novità, eventi, politica e regni); quello dei dominati appartiene alla conservazione: esso non fa che ripetere la base statica della natura, oggetto manipolabile dello sviluppo che altri dirigono. La storia dei palestinesi è una stasi vegetale e minerale. La massa dei colonizzati viene espropriata e alienata da sé, perché il suo lavoro alimenta un tempo che non le appartiene.
Nella misura in cui il colonizzato resta umano e vuole essere umano, non può che desiderare a sua volta di sostituirsi al colono: prima ancora che desiderare o invidiare gli oggetti che quegli possiede, desidera e invidia il suo stesso essere. Nella situazione coloniale, gli viene tuttavia negata la reciprocità del riconoscimento: l’identità del colonizzatore è l’unica possibile, ma inoltre spetta interamente al colono e a nessun altro con altrettanta compiutezza. C’è dunque un dislivello d’essere, una discrepanza identitaria, che nessuna imitazione servile permetterà al colonizzato di superare. Era la condizione dei neri in Sudafrica, degli arabi in Algeria, ed è la condizione attuale dei palestinesi.
Questa è una prima causa del nefasto ricorso alla violenza. Se l’unica identità umana riconosciuta è ormai quella del colono, il colonizzato vorrà impadronirsene, sostituirsi al colono, essere nel luogo del colono. Nella misura in cui vuole considerarsi umano, vorrà negare a sua volta l’umanità dell’altro, così come il colono ha lungamente fatto con lui.
Si capisce che questa violenza è animata dal risentimento, è profondamente reattiva e speculare ed è in fondo disastrosa: “Il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventare persecutore” (Fanon). D’altra parte, l’Occidente colonizzatore ha riversato per secoli la sua violenza su ogni zona del mondo: il suo modello identitario si è costruito sulla creazione violenta della servitù e sull’uso illimitato della forza. Questa pratica ha avuto talmente successo, che anche per il colonizzato questo dispiegamento di violenza è divenuto l’unica via possibile per costruire un’identità concepibile come libera. Per essere libero, egli vorrà dunque usare contro il colono un’intensità di violenza almeno pari a quella che il colono ha usato contro di lui. La violenza che ora il colonizzatore sente rivolta contro di sé è il riflesso speculare di quella che egli stesso ha esercitato, e su cui ha fondato in modo assoluto l’immagine di un sé potente e libero. Se il colono ha fatto del colonizzato “una specie di quintessenza del male”, il colonizzato vedrà a sua volta il colono come quintessenza del male: “(…) L’aggressione colonialista s’interiorizza in Terrore nei colonizzati. Con ciò non intendo soltanto il timore che essi provano davanti ai nostri inesauribili mezzi di repressione, ma anche quello che ispira il loro stesso furore” (Fanon).
La riflessione di Fanon rende ragione in modo radicale dell’odio che il mondo dei colonizzati prova nei confronti dei suoi dominatori: stupefacente non è quest’odio, ma il nostro stupore che esso esista.
Dovrebbe essere chiaro – ma in questa situazione di offuscamento della ragione è bene ripeterlo – che non ritengo la violenza mimetica una soluzione dei conflitti in atto, e che si dovrebbe piuttosto mirare alla sua sospensione, prendendo a esempio ciò che Mandela è riuscito a realizzare in Sudafrica; chiaro dovrebbe anche essere che è auspicabile un modello di convivenza tra arabi ed ebrei, e non la guerra dell’uno contro l’altro, nella linea indicata a suo tempo da Rabin, prima di essere, non per caso, assassinato da un fondamentalista ebreo. Sarebbe poi ora di finirla di confondere strumentalmente l’opposizione all’attuale governo israeliano, che presenta profonde venature fasciste e razziste, con l’antisemitismo; o porre sullo stesso piano la critica all’espansionismo estremista e all’apartheid praticati dai coloni israeliani con la negazione del diritto di Israele a esistere.
All’esperienza del totalitarismo e dello sterminio, il pensiero ebraico europeo ha reagito con un’intensità critica che ha continuato a esercitare i suoi effetti ancora sino alla fine del secolo scorso, cercando di sfuggire alla dimensione puramente reattiva del trauma storico, quella che spingerebbe le vittime a rimanere tali o a trasformarsi in persecutori. Esiste una cultura ebraica caratterizzata dal coraggio dell’Esodo, della metamorfosi e della pluralità culturale, viva ancora oggi come dimostra per esempio questo articolo pubblicato da “Le Monde” dello scrittore ebreo Dror Mishani.
È auspicabile che questa sua componente prevalga sul regime autoritario che governa oggi a Tel Aviv, e che minaccia di compiere, se non verrà fermato, un vero e proprio genocidio: incrementando, tra l’altro, la spinta regressiva e fondamentalista di Hamas, invece di rispondere in modo controllato alla catena mimetica delle azioni di guerra. Seicento bambini – secondo quanto riporta “Le Monde” – sono morti negli ultimi giorni a Gaza sotto i bombardamenti: ma questo sembra non essere ancora sufficiente ad appagare la sete di vendetta.
Il nostro pensiero politico, psicologico e storico, non riesce letteralmente ad accettare che un trauma del passato, per esempio la violenza coloniale sulle vittime, possa oggi produrre la follia omicida di un singolo o la radicalizzazione fondamentalista di un gruppo. L’oggi è vissuto nella sua atomizzazione svuotata di ogni rapporto ad altro, e così si costruisce un duello fantasmatico fra i partigiani della ragione democratica e gli schiavi di un odio patologico e insensato. Dovremmo tenere presente che nell’inconscio del collettivo i tempi sono coesistenti e paralleli, e anche la ferita subita secoli prima sopravvive in modo deforme e obliquo nell’istante attuale; ma senza risalire a un tempo così remoto, basterebbe ricordarsi di quanto è accaduto nel recente passato, per comprendere la logica interiore della follia, perché comunque di un disperato delirio si tratta, di coloro che ora colpiscono.
Avendo perso la capacità di pensare in termini di eredità e di trasmissione culturale e psichica dell’esperienza da una generazione all’altra, l’umanità attuale dell’Occidente subisce gli atti sanguinari che la colpiscono in stato di piena incoscienza, furore cieco, depressione insensata. I traumi collettivi sono derubricati a deviazioni criminali, di cui gli attuali viventi non vorrebbero portare alcuna responsabilità. Ma l’inconscio del collettivo ha una memoria più persistente dei traumi subiti o agiti: una memoria che si trasmette in differenti modulazioni da una generazione all’altra, una costellazione familiare che pesa come un incubo sulla vita dei sopravvissuti. Tutto ciò è stato studiato in rapporto alla Shoah, ma vale in pari misura per i delitti coloniali e anche per quelli commessi negli ultimi anni dal governo israeliano. Quanto è dimenticato o rimosso perde ogni legame con un ordine simbolico riconoscibile, e tende a ripetersi come reale catastrofico: sia che l’erede delle vittime venga sospinto a ritrovarsi nel medesimo ruolo degli antenati, sia che avvenga un rovesciamento dei ruoli e il discendente della vittima si faccia carnefice (conservando e ripetendo la struttura archetipica della violenza).