L’Africa, che accresce la sua presenza nei Brics, che conta di pesare di più nel Sud globale, e che avrà un terzo seggio nel consiglio di amministrazione del Fondo mondiale internazionale, si trova divisa ad affrontare il conflitto tra Israele e Hamas. I Paesi del continente sono tradizionali sostenitori della causa palestinese; ma negli ultimi anni Israele ha stretto i suoi rapporti soprattutto con l’Africa subsahariana, dove la crescita del jihadismo e dell’insicurezza hanno permesso a Tel Aviv di espandere la propria influenza attraverso la vendita di armi e di servizi di sicurezza. Più recentemente, gli accordi di Abramo (sottoscritti nel 2020 con gli Emirati arabi uniti e il Bahrain) sono stati estesi al Marocco e al Sudan. Dei cinquantacinque membri dell’Unione africana, quarantasei riconoscono Israele. Questo spiega la diversità delle prese di posizione oggi.
L’attuale presidente della Commissione dell’Unione, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, ha espresso “preoccupazione”, e ricorda che “la negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese, in particolare quello di uno Stato indipendente e sovrano, è la causa principale della tensione permanente israelo-palestinese”; lancia quindi un appello alle due parti per mettere fine alle ostilità militari e ritornare al tavolo dei negoziati in vista dell’affermazione del principio dei due Stati.
All’opposto il Togo, da tempo uno dei Paesi africani più vicini a Israele, ha condannato l’attacco di Hamas contro civili israeliani e ha chiesto il rilascio degli ostaggi. Il Sudafrica condanna la nuova escalation provocata dall’occupazione illegale dei territori palestinesi, dalla politica degli insediamenti, dalla profanazione della moschea di al-Aqsa e dei luoghi santi cristiani e la continua oppressione del popolo palestinese. Pretoria si dice disponibile a lavorare con la comunità internazionale per “garantire una pace duratura per uno Stato palestinese vitale, che viva in pace fianco a fianco con Israele, entro i confini riconosciuti a livello internazionale del 1967, con Gerusalemme Est come capitale”. Ancora più dura la presa di posizione del Congresso nazionale africano.
L’Egitto è il Paese africano che ha i rapporti più stretti con Israele, con cui ha relazioni diplomatiche dal 1980, dopo la firma del trattato di pace dell’anno precedente. Lo obbligano la storia e la geografia, essendo confinante sia con Israele sia con Gaza. Il presidente al-Sisi si è limitato a far sapere che segue l’evoluzione della situazione a Gaza, mentre la diplomazia egiziana è tra le più attive, e il 10 ottobre si sono riuniti al Cairo i ministri degli Esteri della Lega araba. L’Egitto, che pure è la massima potenza militare del continente, al 14° rango mondiale, non può più permettersi un’avventura militare. Gioca invece da sempre un ruolo strategico per il confine che condivide con Gaza. Il valico di Rafah, che altre volte è servito da corridoio umanitario, rimane per il momento chiuso. Nel Paese i sentimenti sono però più schierati: è di domenica 8 ottobre l’episodio di un poliziotto che, ad Alessandria, ha ucciso due turisti israeliani e la loro guida egiziana.
La posizione più ambigua è quella del Marocco, dove la spaccatura con il sentimento popolare è più forte. Il ministero degli Esteri si è limitato a esprimere “profonda preoccupazione” e a condannare “gli attacchi contro i civili ovunque si trovino”. I partiti della maggioranza governativa non si sono espressi, mentre altri, a cominciare dal Partito della giustizia e dello sviluppo (islamista) hanno salutato l’operazione di Hamas. Il re Muhammad VI ha fatto proprio l’appello dell’Autorità nazionale palestinese per una riunione d’urgenza della Lega araba, ma non è intervenuto nel conflitto. La sua posizione è in effetti la più delicata. Muhammad VI è il presidente del Comitato al-Quds – il nome in arabo di Gerusalemme – che dovrebbe avere il compito di preservare il carattere arabo-musulmano della città. Anche per questo la monarchia è tradizionalmente vicino alla causa palestinese. Rabat è stata però coinvolta dall’allora presidente americano Trump negli accordi di Abramo. Dopo aver incassato il riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, della sovranità marocchina sul Sahara occidentale, che occupa illegalmente dal 1975, è stato invitato a riannodare (nel dicembre 2020) le relazioni diplomatiche con Tel Aviv, che, nel luglio di quest’anno, ha ricambiato riconoscendo a sua volta la sovranità di Rabat sul Sahara occidentale. Nel Paese, intanto, si sono svolte manifestazioni in favore dei palestinesi, e hacker marocchini hanno attaccato i siti israeliani.
Nel Maghreb le posizioni più dure nei confronti di Israele sono state prese dall’Algeria e dalla Tunisia. Algeri, che non riconosce quella che definisce “entità sionista”, ha condannato senza mezzi termini l’aggressione nei confronti della popolazione civile a Gaza, senza accennare all’operazione di Hamas contro Israele. La presa di posizione del governo è stata condivisa praticamente dalla totalità dei partiti politici, mentre gli organi di informazione seguono l’attualità sul terreno. Ancora più dura, nei toni e nelle espressioni, la posizione del presidente tunisino Saïed, che si è espresso ufficialmente attraverso la sua pagina Facebook, dove oltre al sostegno incondizionato alla resistenza palestinese, al diritto di uno Stato palestinese, ha stigmatizzato la mancanza di memoria rispetto alla “storia sanguinaria dell’entità sionista a cominciare dalla sua creazione nel 1948”. Tra l’altro un modo, quello del presidente tunisino, per far dimenticare la sua deriva autoritaria in patria.