Il Vesuvio non è il più cattivo di tutti. In Italia ci sono numerosi altri vulcani, ma quello forse più insidioso è la grande caldera dei Campi Flegrei. Si tratta in pratica di un super-vulcano, situato in un’area che si estende per oltre centocinquanta chilometri quadrati, e che inizia proprio alla periferia di Napoli, giungendo fino a interessare le isole di Ischia, Procida e Nisida. Un sistema complesso, di cui fanno parte una trentina di vulcani, formatosi circa sessantamila anni fa per collasso, dopo una violenta eruzione di magma, cui ne seguì un’altra quindicimila anni fa, in cui venne prodotto buona parte del tufo giallo napoletano.
Qui, nel Lago d’Averno (a-ornis, senza uccelli, per le esalazioni sulfuree sprigionate dall’acqua nessun volatile lo sorvolava), le antiche geografie situavano la porta degli Inferi. Nella regione dei Campi Flegrei ci sono più di cinquanta focolai di eruzione e due terzi della caldera del vulcano, la struttura, a forma di calderone creata dalle eruzioni, è sott’acqua. Sul territorio del super-vulcano vivono circa 360.000 persone. L’ultima eruzione dei Flegrei risale al 1538; ma negli ultimi settant’anni il super-vulcano è stato molto irrequieto. Secondo gli esperti, in questo periodo sono stati misurati decine di migliaia di piccoli terremoti e la città costiera di Pozzuoli si è sollevata di quasi quattro metri. Lo sciame sismico, verificato dai sismografi nelle ultime settimane, è dunque un annuncio non solo di un possibile terremoto maggiore, ma di una eventuale eruzione.
La preoccupazione è grande, anche perché uno studio importante, condotto recentemente da un team congiunto delle Università di Bologna e Londra (Potential for Rupture before Eruption at Campi Flegrei Caldera, Southern Italy), ha messo insieme tutti i dati disponibili per cercare di capire cosa sta accadendo e monitorare la situazione del vulcano. Il team di ricerca ha concluso che alcune parti del vulcano si sono indebolite e sono quasi al punto di rottura. La crosta che ricopre il magma potrebbe rompersi, anche se le tensioni attualmente in atto appaiono inferiori a quelle dell’ultima crisi, verificatasi quarant’anni fa. Il prof. Kilburn, autore principale della pubblicazione che ne riporta gli esiti, ha chiarito: “Il nostro nuovo studio conferma che i Campi Flegrei si stanno avvicinando all’eruzione”. Tuttavia ha precisato: “Questo non significa che l’eruzione sia garantita. La frattura che si sta creando potrebbe aprire una crepa attraverso la crosta, ma il magma deve ancora essere spinto nel punto giusto perché si verifichi un’eruzione”.
Certo, il quadro è inquietante: il numero di piccoli terremoti è in aumento: nel solo mese di aprile ne sono stati registrati più di seicento, un numero mai registrato prima in un solo mese. Inoltre, il terreno sotto la città si è sollevato di circa dieci centimetri all’anno. L’ultima fase di turbolenza del super-vulcano è stata probabilmente causata dal gas magmatico, che è entrato nelle fessure della roccia e ha riempito la crosta spessa tre chilometri come una spugna. “Non possiamo vedere cosa succede nel sottosuolo”, ricorda la coautrice dello studio, Stefania Danesi, “ma dobbiamo decifrare gli indizi che il vulcano ci fornisce, cioè i terremoti e il sollevamento del suolo”.
È dagli anni Cinquanta del Novecento che si vanno accumulando segnali di una ripresa dell’attività vulcanica: il che significa che anche fenomeni non particolarmente appariscenti, per esempio un sollevamento del suolo di dimensioni ridotte e piccoli sciami sismici, potrebbero costituire il preludio a un’eventuale eruzione. Anche se un’eruzione non è ineluttabile, sottolinea il gruppo di ricerca. “Lo stesso vale per tutti i vulcani che sono stati tranquilli per generazioni”, come spiega il coautore Stefano Carlino. “I Campi Flegrei potrebbero entrare in una nuova routine fatta di alti e bassi, oppure potrebbero semplicemente diventare silenti. Non possiamo ancora dire con certezza cosa accadrà. L’importante è essere preparati a qualsiasi sviluppo”.
Ma questa preparazione c’è? Il piano di evacuazione approntato della protezione civile prevede la divisione dell’area che insiste sulla caldera in due zone, una rossa e una gialla. La zona rossa è quella più a rischio di essere interessata dalle colate di magma. Ci abitano oggi circa cinquecentomila persone: va dalle località di Giugliano, Quarto, Marano (in parte), Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida fino a Napoli, includendo la periferia di Pianura, Bagnoli, Soccavo, Fuorigrotta, e zone più centrali come Posillipo, Chiaia, in parte il Vomero, l’Arenella, Chiaiano. La zona gialla, che potrebbe essere interessata dalla ricaduta delle ceneri, è invece molto più vasta e ci vivono circa ottocentomila persone.
Il piano prevede, quindi, una evacuazione controllata in caso di intensificazione dell’attività sismica, a seconda della gravità dei fenomeni e della collocazione delle popolazioni. Ma il susseguirsi delle scosse e la loro intensità (quella della notte del 26 settembre è stata la più forte degli ultimi trentanove anni) sta riportando l’attenzione su alcune criticità che potrebbero compromettere il buon esito del piano di evacuazione, per esempio la presenza di cantieri o addirittura la chiusura di alcune delle strade indicate come vie di fuga.
Fatto sta che, a metà settembre, i sindaci dei comuni campani più a rischio hanno avuto un incontro con il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci, proprio per chiedere una revisione del piano di emergenza, giudicato vecchio e inadeguato. Le richieste vertono sull’aggiornamento delle vie di fuga, il controllo dello stato e della manutenzione delle infrastrutture e degli edifici, nonché l’integrazione di quanto emerso dallo studio dei flussi di persone e auto commissionato dalla Regione Campania. È stata avanzata anche la proposta di una esercitazione, dato che l’ultima prova di evacuazione risale al 2019.
Il rischio è che le avvisaglie di un possibile disastro vengano sottostimate, come avvenne nel caso del terremoto dell’Aquila, con conseguenze tragiche. In questo specifico caso, inoltre, l’eventuale affievolirsi dei fenomeni non è garanzia di ritrovata tranquillità, dato che, come sottolineava il già citato studio, i singoli episodi appartengono a un’unica sequenza evolutiva, per cui gli effetti di ciascuno di essi dipendono dall’effetto cumulativo dei precedenti. La riduzione delle scosse potrebbe indurre un’ingannevole serenità nelle comunità locali e nelle autorità interessate, con una rischiosissima sottovalutazione del rischio. L’eruzione è una possibilità realistica, e le misure preventive vanno approntate fin da ora. Speriamo che quelle dello studio anglo-bolognese non rimangano parole al vento – in fondo, dal lago d’Averno la grotta della Sibilla è poco lontana.