A volte ritornano. Così Robert Fico con il suo partito socialdemocratico nazionalista (Smer-Sd) – a cinque anni di distanza dalle dimissioni richieste a furor di popolo, nel marzo del 2018, perché coinvolto in un’inchiesta su corruzione e infiltrazioni mafiose, costata la vita al giornalista Jan Kuciak e alla sua compagna Martina Kušnirova – ha vinto con il 23%, domenica primo ottobre, le elezioni in Slovacchia, battendo nettamente Slovacchia progressista (Ps), guidata da Michal Šimečka, giornalista e politologo, dato per favorito prima del voto ma sconfitto con il 18% dei suffragi. Fico è un antieuropeista, favorevole al pugno di ferro contro i migranti che provengono dai Balcani, oltre che nettamente contrario all’invio di armi all’Ucraina; d’altro canto, il giovane leader progressista sposa la linea del sostegno a Kiev, è fautore di una politica ambientalista e di rispetto dei diritti civili, oltre che del voto a maggioranza all’interno dell’Unione europea per rendere il blocco più flessibile.
Le elezioni in quella che una volta era parte integrante della Cecoslovacchia, insieme ai cechi, sono ben lungi dal riguardare solo i 4,3 milioni degli elettori e delle elettrici su 5,4 milioni di abitanti – con una affluenza alle urne del 67,4%, la più alta dal 2002 –, in quanto al proprio interno, come in Polonia, le forze politiche si dividono sul sostegno o meno all’Ucraina con ripercussioni internazionali importanti. “Siamo pronti ad aiutare l’Ucraina a livello umanitario e con la ricostruzione del Paese – ha subito precisato Fico in una conferenza stampa a Bratislava –, ma non con gli armamenti”, aggiungendo che “le elezioni non erano su inviare le armi in Ucraina o no, la Slovacchia ha i suoi seri problemi, che per noi sono prioritari”.
Ora Fico dovrà sciogliere il nodo delle alleanze, cercando di mettere insieme 79 seggi su 150 nel Consiglio nazionale della Repubblica slovacca, che gli consentirebbero di formare un esecutivo in grado di governare. La sua, pur essendo stata una vittoria netta, non gli ha garantito la maggioranza assoluta. Per questo gli ostacoli non mancano: Fico può contare sul Partito nazionale slovacco (Sns), formazione di destra nazionalista capeggiata dal presidente Andrej Danko e dal segretario generale Stanislav Kmec; mentre è tutt’altro che scontata un’intesa con Voce-socialdemocrazia (Hlas-Sd), che ha ottenuto il 15% dei consensi, del moderato e pacifista Peter Pellegrini, ex compagno di partito di Fico, già primo ministro (dopo le dimissioni di Fico) dal 22 marzo 2018 al 21 marzo 2020, più vicino all’Europa e contrario a qualsiasi ipotesi di coalizionecon il partito di estrema destra Republika.
Se prima del voto Pellegrini aveva confermato la sua vicinanza a Smer, ora le cose non sarebbero più così ovvie. Secondo il quotidiano slovacco “DennikN”, il partito Hlas-Sd preferirebbe una coalizione con il Movimento dei cristiani democratici (Kdh), pro-Unione e pro-Ucraina, e con il Partito di Simecka. Fico ha intanto ricevuto l’incarico di formare il governo dalla presidente, Zuzana Caputova. Per questo il vincitore ha promesso il massimo impegno per garantire a Pellegrini “una posizione dignitosa in qualsiasi coalizione, corrispondente al proprio ruolo nel contribuire a mettere insieme la coalizione stessa”.
L’ingresso di Hlas-Sd nell’esecutivo potrebbe smussare i toni nazionalistici del premier, ma è fuori discussione che la sua vittoria rafforzi nel vecchio continente la posizione contraria alla linea di Bruxelles sul conflitto in corso, rappresentata in primo luogo dall’Ungheria di Orbán. Si aggiunga il rafforzamento del boicottaggio dei cereali ucraini. Al pari di Polonia, Ungheria, Romania e Bulgaria, la Slovacchia aveva minacciato di bloccare l’importazione di grano dall’Ucraina, timorosa di essere inondata da un prodotto a basso costo che minaccerebbe la sua economia. Contro questa inevitabile deriva, darà battaglia Simecka, che ha come primo obiettivo quello di impedire che lo Smer-Sd formi la coalizione governativa, forte anche del suo buon risultato, sebbene al di sotto delle aspettative. “Rispettiamo la vittoria – ha detto il giovane leader –, ma l’affermazione di Fico è una cattiva notizia per il Paese e peggiore sarebbe se riuscisse a formare il governo. Il nostro obiettivo è che questo non accada”.
Controversa la storia di Fico. Già comunista, si era fatto portatore di idee decisamente più europeiste, salvo poi rinnegare quella politica. Se, come dicevamo, è pertinente il paragone con Orbán, che non ha tardato a fare i complimenti al suo omologo slovacco, va anche detto che il presidente ungherese è decisamente più forte nel suo Paese rispetto a Fico, che dovrà fare i conti con avversari più agguerriti. Non ultimi, come riporta “Il Fatto”, “potenti uomini d’affari che, secondo il senior fellow del German Council on Foreign Relations, non condividono il suo programma sull’Ucraina, volendo partecipare alla ricostruzione del Paese”.
La politica nazionalista del premier incaricato potrà subire un ridimensionamento anche per un’altra ragione. “L’Europa – secondo una ricerca dell’Ispi (Istituto studi di politica internazionale) – avrebbe comunque argomenti convincenti per neutralizzarne la retorica. In campagna elettorale, per esempio, Fico ha promesso agli slovacchi un ampio aumento della spesa pubblica, una promessa – sottolineano all’istituto, presieduto dall’ex diplomatico e funzionario della Farnesina, Giampiero Massolo – che non riuscirà a mantenere senza i sei miliardi di euro del Recovery Plan previsti per il Paese”.
Aggiungiamo, inoltre, che la sua decisione di non inviare più armi a Kiev cambierà ben poco. Bratislava, con i precedenti governi di Eduard Heger e Ľudovít Ódor, ha consegnato all’Ucraina tutto ciò che c’era da consegnare: dunque, concretamente, al di là della presa di posizione ideologica, non si registreranno novità. Resta il segnale politico, in un contesto sempre meno favorevole all’Ucraina e alla politica atlantista. A partire da Washington, dove si delinea uno scenario favorevole al “disimpegno”, che recentemente ha caratterizzato la politica dei repubblicani e di Trump in particolare. Inoltre, l’accordo tra i democratici e il partito che fu di Reagan e dei Bush ha evitato il cosiddetto shutdown, ovvero il diniego del Congresso all’approvazione dei piani di spesa dello Stato, in mancanza della quale ogni attività economica, compreso il pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici, si blocca. Quest’intesa ha però lasciato fuori gli oltre sei miliardi di dollari destinati a Kiev. La compattezza dell’Occidente, nei riguardi del conflitto russo-ucraino, potrebbe quindi incrinarsi.
È evidente che l’avanzata di forze reazionarie non è certamente una bella notizia. Bisognerà però verificare se un ridimensionamento degli aiuti all’Ucraina possa aprire un qualche spiraglio di pace, contemporaneamente a una riduzione dell’attività bellica di Mosca o addirittura a un cessate il fuoco. Per le forze progressiste, che hanno fin qui messo nel cassetto ogni ipotesi del genere privilegiando una scelta bellica spacciata come di sinistra, sarebbe una sconfitta che potrebbero pagare a caro prezzo presso un’opinione pubblica mondiale stanca della guerra, comprendendo in essa una percentuale non esigua degli stessi ucraini.