Decisamente da leggere il volume di Renato Foschi Storia dei razzismi (Mondadori Università). Un’opera che andrebbe adottata nelle scuole superiori, prima ancora che negli istituti universitari, perché insegna a non prendere per buone a scatola chiusa discipline e indirizzi di ricerca presentati in passato, talvolta ancora oggi, come “scientifici”. La storia delle cosiddette scienze umane, dalla biologia alla psicologia, è stata invece abbondantemente permeata dal pregiudizio. Tra nomi insigni e meno insigni, quasi nessuno si salva: ed è piuttosto scioccante apprendere che i test dell’intelligenza, la psicometria in genere, le valutazioni del presunto “merito” nella formazione dei giovani, sono tutte tecniche almeno inizialmente elaborate all’interno di un contesto ideologico razzista.
L’autore dedica diverse belle pagine alla questione delle differenze tra il Sud e il Nord del nostro Paese considerate a lungo innate in senso lombrosiano, secondo un principio di ereditarietà dura, che non concedeva pressoché nulla all’influenza dell’ambiente culturale, o alle condizioni socio-economiche in cui ci si trova a vivere. Fu Napoleone Colajanni (1847-1921), grande figura di meridionalista, in testi pubblicati tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, a mostrare come fossero del tutto fuorvianti le tesi sull’“atavismo” delle popolazioni del Mezzogiorno, collegando piuttosto la loro miseria al tipo di sfruttamento cui nei secoli erano state sottoposte. “Colajanni è uno di quegli studiosi che molti anni prima del razzismo nazifascista aveva messo in luce che gli scienziati della razza si occupavano in realtà di pseudoscienza, che le nozioni erano contraddittorie, che le descrizioni e le classificazioni razziste erano fantasiose” (p. 62).
In sostanza chi parlava di “razze” – possiamo oggi affermarlo con certezza – ipotizzava che ci fosse un modello di razza pura che non è mai esistito, o che, ammesso che fosse esistito, non sarebbe disponibile in alcun modo alla nostra conoscenza, perché per rintracciarlo si dovrebbe risalire indietro nella notte dei tempi, a quando sulla terra cominciarono a esserci i primi antropoidi. I moderni genetisti, per esempio le ricerche di Richard Lewontin (1929-2021) e poi anche la genetica delle popolazioni di Luigi Cavalli-Sforza (1922-2018), hanno stabilito che non esistono le razze, ma solo differenze nella distribuzione di taluni caratteri somatici, come il colore della pelle, che hanno un’incidenza del 15% a fronte di un corredo genetico che per l’85% è simile in tutti gli umani.
Eppure, se “in principio era il pregiudizio”, come si potrebbe dire, alla fine c’è di nuovo il pregiudizio. Parlare più pudicamente di etnie, come si sente spesso oggigiorno, non modifica di molto la situazione. Anche se l’ethnos è legato più alla cultura che alla biologia, non per questo – trascurando di dire che le culture sono tra loro mescolate e solo determinate usanze e determinati costumi, all’interno di questa mescolanza, sono assunti dai sostenitori delle tradizioni come qualcosa da preservare (da ultimo quando si chiacchiera, per dirne una, di una “sovranità alimentare”) – si è immuni dal razzismo, o da quel suo parente stretto che è la xenofobia. La cosa però si complica perché gli stessi “razzizzati” o ex tali – un po’ per una protesta che intende rovesciare l’antica stigmatizzazione, un po’ per una ricerca identitaria che dovrebbe ricondurli “alle radici”, in specie religiose – contribuiscono a tenere vivo un discorso sulla razza. Certo, non con il tentativo di trovare per esso una base scientifica, ma come uno strumento di lotta che nel frattempo ha mutato il segno della propria efficacia simbolica. Così il pregiudizio lo si trova all’inizio e alla fine di tutto il percorso compiuto dalla nozione di razza, che purtroppo non può essere liquidata come pure si dovrebbe. Del resto, volendo stabilire un parallelo, la magia avrebbe da tempo abbandonato il campo del nostro sapere di moderni. Ma è così? Per nulla. Essa rimane nella vita sociale contemporanea sia impastata con la scienza sperimentale sia al suo fianco – allo stesso modo in cui la “razza”, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra.
Quest’ultimo aspetto della questione (ed è l’unico rimprovero che andrebbe mosso a un libro per il resto finissimo) rimane in gran parte fuori dall’analisi di Foschi. Fondata su un’impostazione universalistica di marca illuministica (o illuministico-massonica, dato che l’autore ritorna a più riprese sull’unità, presunta o reale che sia, dei due orientamenti, tra Settecento e Ottocento), l’analisi mette a fuoco le palesi contraddizioni tra l’universalismo e la difesa della pratica della schiavitù o della segregazione a danno dei neri (da parte per esempio dei fondatori degli Stati Uniti d’America); e non si accorge che proprio nella definizione di che cosa sia umano, degno quindi di accedere ai proclamati diritti universali, sta una componente decisiva di quell’illuminismo che in certe sue applicazioni non è stato semplicemente distorto o amputato, ma usato come strumento di distinzione di una cultura, quella occidentale moderna, che si voleva diversa dalle altre nel suo tracciare una linea di demarcazione tra la luce e le tenebre – pur non essendolo poi affatto, ritrovandosi al suo fondo lo stesso principio attivamente escludente che ne fa una cultura al pari delle altre, le quali, sebbene ibridate con l’alterità come tutte, si vorrebbero anch’esse uniche.
Perciò i razzismi, giustamente al plurale, non possono essere messi fuori causa in un colpo solo, richiedendo un’opera di contestazione ininterrotta, pronti come sono a rinascere dalle proprie ceneri per via della funzione identitaria che in un modo o nell’altro svolgono. Perfino in maniera implicita, tacitamente discreta, senza pogrom e roboanti manifesti, i razzismi sopravvivono a se stessi. Sono infatti un ingrediente essenziale di qualsivoglia “personalità autoritaria”, oggi come ieri, pur senza più quella gerarchia che si pretendeva di trarne fuori – come con l’esaltazione degli ariani sugli ebrei nell’antisemitismo, o dei bianchi sui neri nel razzismo schiavistico-coloniale –, ma facendo passare in modo quasi subliminale l’idea di una lotta delle etnie o delle razze a cui ricondurre il conflitto sociale. Anche avvantaggiandosi dell’assenza di quell’agente storico, al tempo stesso particolare e universale, che fu il movimento operaio.