“È la terra della morte”. Non poteva usare parole migliori Stefano Gatto, da un anno ambasciatore dell’Unione europea a Haiti, per descrivere il baratro in cui è piombato il Paese caraibico, che divide con la Repubblica dominicana l’isola di Hispaniola. Quella della Unione europea, insieme a Francia e Spagna, è una delle tre rappresentanze diplomatiche europee rimaste nella capitale Port-au-Prince. Da quando il presidente Jovenel Moïse venne assassinato da mercenari nel luglio 2021 (vedi qui) – sostituito ad interim da Ariel Henry, il suo primo ministro – l’ex colonia francese, la cui instabilità è endemica, è arrivata ora a un punto di non ritorno, che rende praticamente impossibile una vita più o meno normale. A farla da padrone sono le gang, che, a differenza dei Paesi centro-americani, non si limitano a creare gravi problemi di sicurezza per la popolazione e a controllare alcuni quartieri, ma vogliono direttamente governare il Paese bloccando porti e strade, effettuando sequestri con relative estorsioni, traffici vari, assassinii, razzie e altre amenità, nell’assenza totale dello Stato.
Il leader assoluto e indiscusso di questi gruppi è l’ex agente di polizia Jimmy Chérizier, che minaccia di far cadere il governo e di espellere le forze internazionali. Conosciuto come “Barbecue”, il boss della coalizione di gang G9 è sceso in piazza, la settimana scorsa per la seconda volta, circondato da uomini armati, per una sorta di conferenza stampa. Altra situazione incredibile è la presenza di rifugiati interni alla stessa capitale. Sono centocinquantamila, costretti a vagare da un quartiere all’altro della città, anche perché è impossibile uscire. “Le strade che escono da Port-au-Prince – spiega Gatto in un’intervista rilasciata alla testata online “Nova.news” – sono tutte bloccate, chi passa di lì deve pagare una tassa, ma se passa uno straniero o una persona con una buona macchina scatta il rapimento”.
A rendere ancora più drammatica e complicata la situazione dell’ex colonia francese è la decisione della Repubblica dominicana di blindare il confine tra i due Paesi. Questo ovviamente comporterà altri drammatici problemi. Santo Domingo ha chiuso ogni collegamento aereo, marittimo e stradale con Haiti, in risposta alla decisione di Port-au-Prince di costruire un canale sul fiume binazionale Masacre. Diventa così difficile capire come fare arrivare approvvigionamenti – anche il passaggio dei prodotti di prima necessità è interdetto dalle bande armate – a una popolazione allo stremo, né come potrà essere possibile per gli stranieri lasciare il Paese, siano essi diplomatici o membri di associazioni umanitarie. Anche l’elettricità verrà a mancare tra due settimane.
Insomma, Haiti è stata trasformata in una “trappola per topi”, come l’ha definita efficacemente il diplomatico italiano. Intanto Médicins sans Frontières è stata costretta a chiudere alcune strutture. “Stiamo assistendo a scene di guerra di fronte al nostro ospedale – dice Vincent Harris, consulente medico di Msf a Haiti –, anche se non siamo stati direttamente presi di mira, siamo una vittima collaterale dei combattimenti, visto che l’ospedale si trova nell’area degli scontri. Sappiamo che la chiusura della nostra struttura avrà un grave impatto sulla popolazione di Cité Soleil, ma le nostre équipe non possono lavorare finché non saranno garantite condizioni di sicurezza”.
A fare le spese di questa situazione sono anche i missionari Chierici di San Viatore presenti nell’isola. “Viviamo questa insicurezza come tutto il resto della popolazione, cercando di sopravvivere – ha detto all’Agenzia Fides padre Nestor Fils-Aimé –, e per evitare di esporci eccessivamente al pericolo abbiamo dovuto prendere una serie di misure di sicurezza. Tra queste l’evacuazione della località di Croix des Bouquets, dove il confratello, padre Jean-Yves Médidor era stato rapito lo scorso marzo”.
Che cosa può fare l’Onu per arginare questa spirale di violenza, che ha provocato la morte di duemila persone nella prima metà del 2023, il rapimento di più di mille, un aumento del 30% della malnutrizione infantile, oltre al recente ritorno dell’epidemia di colera? Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha più volte fatto appello all’assemblea del Palazzo di vetro, perché si organizzi una missione per fermare l’azione dei gruppi criminali, senza ottenere grandi risultati. Chi ha mostrato una certa disponibilità è il Kenya, il cui presidente William Ruto ha firmato un’intesa con il governo di Henry, pronto a inviare mille agenti di polizia, ovviamente all’interno di una forza multinazionale, che dovrebbe essere composta da poliziotti e militari provenienti dall’area caraibica e africana, vista la storica ostilità della popolazione haitiana nei confronti dei bianchi considerati eredi dei colonizzatori.
Ricordiamo che Haiti è stato il primo Paese colonizzato a raggiungere l’indipendenza, il primo gennaio del 1804, sull’onda degli ideali di giustizia e libertà provenienti dalla Rivoluzione francese. Questa ipotetica, quanto indispensabile forza, che potremmo definire anti-gang, sarà tuttavia coordinata dagli Stati Uniti, preoccupati come sono dall’arrivo di altri profughi, sebbene per gli haitiani abbandonare l’isola non sia affatto un’impresa facile, vista la situazione. Al riguardo, il segretario alla Difesa statunitense, Loyd Austin, recatosi presso la base militare di Manda Bay, ha siglato con i kenioti un accordo, che prevede l’addestramento dei soldati delle Forze di difesa del Kenya, e un programma di assistenza finanziaria e tecnica nei prossimi cinque anni.
Un intervento internazionale deve poi fare i conti con un altro problema: le Nazioni Unite non godono di buona reputazione, in quanto nel 2007, 114 membri della missione di peace keeping si sarebbero resi responsabili di gravi crimini, tra cui abusi sessuali. E tuttavia la popolazione è stremata da quello che può essere definito uno stato di guerra permanente, figlio in realtà di decenni di governi uno peggiore dell’altro, tutti oppressivi e corrotti, spesso sostenuti dagli Stati Uniti e non osteggiati adeguatamente dalla comunità internazionale.
Dal 1957 al 1986 l’isola fu governata dalla famigerata famiglia Duvalier, padre a figlio, soprannominati rispettivamente Papa-Doc e Baby-Doc. La loro fu una dittatura spietata, che appare però un paradiso terrestre in confronto con quanto sta succedendo oggi. Questo Paese, il più povero di tutto il continente americano e tra i più poveri del mondo, assurse agli onori delle cronache nel 1974, quando la nazionale di calcio haitiana ai mondiali mise in difficoltà gli azzurri, che vinsero a stento contro una squadra di povera gente, minacciata tra l’altro dal regime, qualora fossero ritornati a casa senza risultati. Da allora si registra solo un susseguirsi di colpi di Stato e dittature. L’unica speranza nel 1990, quando le elezioni furono vinte da Jean-Bertrand Aristide. Ex presbitero, esponente della teologia della liberazione, amico di Cuba, speranza d riscatto per la popolazione haitiana, fin da subito non godette della simpatia degli Stati Uniti, tanto da essere destituito il 29 settembre da un colpo di Stato sostenuto, come da prassi, dalla Cia. Solo con l’arrivo dei democratici e di Bill Clinton, e in seguito a una visita dell’ex inquilino della Casa Bianca, Jimmy Carter, gli Stati Uniti si convinsero che Aristide dovesse essere reintegrato: e così fu, il 15 ottobre del 1994, grazie all’arrivo nell’isola di ventimila marines. L’ex religioso governò il Paese fino al 2004, intervallato però da altri presidenti. Così la spinta propulsiva della sua politica si esaurì. Ora il Paese è al capolinea, e ancora una volta le responsabilità di questa situazione in gran parte sono dell’Occidente, che dovrà fare di tutto per fermare una delle tante guerre – perché di questo si tratta – che insanguinano il pianeta.