In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Fininvest, e il Verbo era Marina (Berlusconi). D’accordo, si scherza, si esagera un po’: ma nella vicenda della contesa interna alla maggioranza di destra-centro sulla tassazione degli extraprofitti delle banche la voce dell’erede principale della dinastia di Arcore ha pesato eccome. La presidente di Fininvest lo ha fatto sapere sia per le vie brevi ai suoi interlocutori di governo, sia pubblicamente, ammettendo con i giornalisti di avere “grandi perplessità” sulla norma contenuta nel cosiddetto decreto Asset: perplessità, peraltro, “sia sul metodo, sia sul merito”. Non è necessario ricordare la presenza della famiglia Berlusconi nella galassia bancaria (in particolare nell’azionariato di Mediolanum) per spiegare la sua partecipazione non troppo astratta alla discussione pubblica sulla norma.
Dal punto di vista politico, invece, è il caso di registrare un dato di fatto tutt’altro che marginale: a dispetto degli spin fatti circolare per settimane da fonti interessate, soprattutto di Fratelli d’Italia, non è stato affatto il plenipotenziario (provvisorio) di Forza Italia, Antonio Tajani, segretario della forza politica di maggioranza più debole – e meno confortata dagli ultimi sondaggi – fra le tre principali, a dover fare un passo indietro sulla questione. Il che racconta molto più di mille retroscena sui limiti reali degli spazi di manovra di cui gode Giorgia Meloni, quando il racconto della politica esce dalla propaganda via social network e dagli schermi dei telegiornali e dei talkshow più affettuosi.
Tajani in festa
“Arriveranno i soldi dalle banche, ma abbiamo tutelato quelle piccole, e abbiamo rinforzato il sistema” – ha cantato vittoria Tajani, che ha fatto ritirare gli undici emendamenti di Forza Italia sulla norma, dopo aver ottenuto l’esclusione dei titoli di Stato dal calcolo dell’imponibile e la possibilità per gli istituti creditizi di scegliere se pagare o consolidare il proprio patrimonio. Non troppo convincenti le repliche secondo le quali l’emendamento governativo, apprezzato da Forza Italia (e che evidentemente attenua, se non supera, le “perplessità” di Marina Berlusconi), non cambia nulla nella sostanza dell’intervento. Repliche affidate soprattutto alle mitragliate di dichiarazioni dei peones della destra: altro dato indicativo di una tensione residua all’interno della coalizione, che si avvia apparentemente in ordine sparso ad affrontare la stagione elettorale delle europee del 2024. Del resto, la legge elettorale per l’europarlamento lo consente, non servono accordi preventivi né sulle posizioni da tenere in Europa né sulla maggioranza che dovrebbe far nascere la futura Commissione Ue.
La vera festa è quella delle banche
Ma è il caso di fare un passo indietro: non sarebbe saggio, a nostro modo di vedere, perdere di vista il fatto che il mondo nel quale vivono lavoratori, professionisti, commercianti, comuni imprese è un tantino diverso da quello nel quale si esercita l’attività delle banche. Noi ci preoccupiamo della frenata del Pil, della recessione in Germania, che rischia di contagiare molti altri Paesi europei, dei prezzi di carburanti ed energia, dei mutui che salgono. Ma il prelievo aggiuntivo che le banche italiane hanno fatto nel 2022 grazie agli interessi gonfiati dai portafogli di famiglie e imprese è stimato da alcune fonti oltre i tredici miliardi di euro. E secondo un’analisi pubblicata dal “Sole 24 ore”, il 2023 è stato decisamente migliore: i primi sei gruppi bancari nazionali (Intesa San Paolo, UniCredit, Mediobanca, Banco Bpm, Bper e Mps) hanno realizzato nel primo semestre di quest’anno profitti in aumento del 60%.
Il gettito atteso
I più ottimisti parlano di tre miliardi che dovrebbero entrare grazie alla tassa sulle banche, soldi che serviranno a supportare le necessità di una legge di Bilancio asfittica, strangolata dalla crescita della spesa per interessi (si ringrazia l’ostinazione della Banca centrale europea nel rialzare i tassi, formalmente per contrastare l’inflazione, autorevolmente definita da un economista “politica monetaria dell’orrore”), ma anche dalle politiche non troppo espansive praticate finora dal governo Meloni. Poco, troppo poco. In continuità con il clamoroso flop del governo Draghi, che, a dispetto delle sue leggendarie competenze tecniche, scrisse la norma sugli extraprofitti dell’energia così male che questa fruttò a malapena un decimo del gettito atteso sopra i dieci miliardi di euro. Così, si è tornati a parlare di nuovi condoni, con la Lega di Matteo Salvini sempre in prima fila a propugnare questo genere di creatività fiscale. Manca poco e la legge di Bilancio vedrà la luce: potremo appassionarci una volta di più ai consueti scontri politici sulle responsabilità per la situazione economica del Paese e per lo stato dei conti pubblici. Quel che appare evidente, proprio all’esito della vicenda della tassa sulle banche, è che non è il caso di immaginare chissà quali svolte nella politica governativa. Alla vigilia del ritorno del patto di stabilità europeo (sia pure moderatamente modificato, se passeranno le proposte della Commissione Ue), il fiato corto dell’economia nazionale non sembra destinato a ricevere più ossigeno.