Anzitutto un ricordo personale. Ho visto Giorgio Napolitano una sola volta a Napoli, doveva essere l’inverno del 1969, nella sala convegni dell’Hotel Majestic accanto al liceo Umberto che allora frequentavo (e che lui aveva frequentato a sua volta alcuni anni prima) in una riunione dedicata dal Pci alla questione della scuola e dell’università. C’erano gli operai e c’erano gli studenti. Tra questi ultimi, si distinguevano quelli del gruppo iper-leninista della Sinistra universitaria, che dalla sua nascita, nel dicembre 1967, in poco tempo aveva conquistato l’egemonia nel movimento studentesco napoletano. L’assemblea si ridusse a un battibecco tra gli esponenti di questo gruppo, parecchio settario, e quelli del Pci che facevano intervenire i loro militanti per ricoprire di disprezzo gli intellettualini della Sinistra universitaria, i quali, correggendosi ogni volta con una specie di refrain, dicevano: “Il compagno Napolitano, cioè il signor Napolitano” – per rimarcare che tanto compagno non era.
Com’è noto, il Pci parlava di una “riforma” e gli studenti piuttosto di una “rivoluzione”, considerando la prima una semplice razionalizzazione del sistema capitalistico. A parte ciò, Napolitano nelle conclusioni se la cavò benissimo, da consumato oratore e anche “ragionatore”, che avrebbe voluto – cosa impossibile – ricondurre a sé la stessa Sinistra universitaria. Che aveva (come ebbi modo di apprendere solo molto tempo dopo, essendo piuttosto fitto per noi ragazzini il mistero sul suo pedigree) proprio nel Pci le sue radici: in quel gruppo Gramsci di Guido Piegari espulso dal partito nel 1954 (su cui ha scritto ottimamente più di recente Ermanno Rea), e addirittura nelle riunioni seminariali che ancora teneva il dissidente dei dissidenti, Amadeo Bordiga, che sarebbe scomparso soltanto nel 1970.
Diciamoci la verità: c’era una dissidenza comunista che da lunga data aveva messo a fuoco una realtà che andava diventando sempre più evidente dopo l’invasione della Cecoslovacchia e l’avvento di Berlinguer alla segreteria: il Partito comunista non era più “comunista” in senso leninista, bolscevico, e così via, ma marciava a grandi passi verso il riformismo. Era una evoluzione o involuzione cominciata già con Togliatti (per i dissidenti ciò era chiaro), corroboratasi con uno strano mix – rappresentato, in modo particolare a Napoli, da Amendola e appunto da Napolitano – di stalinismo filosovietico e liberalismo tardo-crociano, e che avrebbe avuto, come poi ebbe, uno sbocco liberaldemocratico anziché socialista o socialdemocratico.
Con la morte di Berlinguer (e in un certo senso già con lui), si ebbe la grande stagnazione del Pci. Napolitano non riuscì a conquistare la segreteria, il partito rimase nel suo immobilismo – dopo la perdente strategia del “compromesso storico” mandata a monte dai soliti intrighi all’italiana, tra servizi segreti e strategia della tensione, con la collusione di un’improbabile “lotta armata” –, e Alessandro Natta, bravissima persona ma debole segretario, non poté evitare che il capogruppo del suo partito alla Camera, cioè proprio Napolitano, arrivasse a salvare Andreotti, nell’ottobre 1984, da una richiesta di “autorizzazione a procedere” per la vicenda Sindona, il bancarottiere legato alla mafia e “suicidato” in carcere nel 1986.
Sarebbe stato forse il colpo anticipato di quel processo ancora di là da venire (infine conclusosi con una prescrizione per Andreotti dal reato di associazione mafiosa), che avrebbe potuto in quel momento aprire una crisi non solo nel partito della Dc, ma anche nell’alleanza moderata di cui essa era l’asse portante. Sarebbe stato un colpo a quello che si chiamava allora il Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), e ciò in una fase ben precedente al crollo del Muro di Berlino. Ma niente da fare. Colui che in seguito sarà soprannominato “re Giorgio” non aveva nessuna voglia di portare l’attacco al moderatismo italiano: piuttosto di essere accolto al suo interno, come già aveva fatto il Partito socialista che, con Craxi, aveva trovato il suo furbissimo leader capace non solo di moderatismo ma di costringere la Dc a cedergli la presidenza del Consiglio.
Napolitano in fondo non fu che questo: un craxiano all’interno del Pci, che con la sua corrente spingeva non verso il socialismo europeo con le sue variegate componenti, in qualche caso anche radicali, ma verso quell’unica che troverà strada facendo nelle posizioni alla Blair il suo coronamento. Non appare casuale che proprio i “miglioristi” milanesi risultassero alla fine implicati – quando Tangentopoli scoppiò davvero, con tutto il suo dirompente contenuto oggettivamente qualunquistico – nel giro della corruzione pilotato dai craxiani. Non si era del resto opposto Napolitano, già in epoca non sospetta, alla rilevanza data da Berlinguer alla “questione morale”? Napolitano chiamava tutto questo “socialismo europeo”, ma era solo subalternità e piccolissimo cabotaggio; mentre semmai proprio Berlinguer, con il suo dialogo con grandi socialdemocratici come Olof Palme o la proposta dell’“eurocomunismo”, vi si avvicinava.
Se l’Italia non ha più né un Partito socialista né un Partito comunista lo si deve a personaggi come Bettino Craxi e, in misura minore, Giorgio Napolitano. Non si è trattato, come alcuni credono, di una dissoluzione dovuta ai tempi: no, partiti del lavoro o dei lavoratori, con forti tradizioni e con più o meno riusciti processi di rinnovamento, ci sono ancora negli altri Paesi europei. In Spagna, per dirne uno, il Psoe (Partito socialista operaio) non ha avuto bisogno di cambiare neppure il nome abbastanza barricadero per diventare una grande forza di governo. Perché in Italia, invece, questo deserto? Per la mediocrità di un pugno di dirigenti.