Nelle proprie analisi, sia i detrattori sia gli estimatori di Io capitano hanno posto l’accento sulla scelta, compiuta da Garrone, di fuggire il rischio di incagliarsi nel cronachismo o nella retorica scartando i moduli espressivi del cinema in senso stretto documentario a vantaggio di un racconto dai marcati tratti epici e, anzi, sostanzialmente affine a una favola. Per gli uni, ciò ha reso meno incisivo il film, lo ha lasciato anche stilisticamente irrisolto (giacché vittima dell’incertezza dell’autore tra la predilezione per una sorta di iper-realismo pur magico e un tentativo di completa trasfigurazione mitico-poetica della realtà, tra un desiderio di specifica denuncia sociale e la volontà di dar corpo a un toccante apologo metastorico) e, soprattutto, ne ha fiaccato l’intento testimoniale e il valore civile, tradendo una visione delle cose, quella del cineasta, restia a convertirsi in sguardo squisitamente politico sul mondo. Agli altri, è parso vero l’esatto contrario: proprio perché ha rappresentato l’emigrazione dall’Africa in Europa come una nuova Odissea e, al tempo stesso, come una riscrittura di Pinocchio non priva di echi dalle Mille e una notte, Garrone ci consente di ragionare sul più significativo fenomeno politico dell’ultimo quarto di secolo, e sui suoi risvolti a dir poco tragici, evitando quelle banalizzazioni e, ancor più, quelle strumentalizzazioni che segnano, nei vari Paesi del vecchio continente, tanto il dibattito pubblico, quanto le contese tra gli opposti schieramenti partitici.
Nessun dubbio sul fatto che questa seconda maniera di vedere e giudicare Io capitano si lasci preferire, sino a rendere l’altra un imperdonabile travisamento del film. Che, insieme con Dogman, si rivela la miglior pellicola del regista romano dai tempi di Gomorra appunto, perché sa scuoterci senza risultare predicatorio e sa, senza evitare di offrircisi quale opera visivamente raffinatissima, mostrarci un inammissibile calvario, quello patito da ogni migrante, che è nostro preciso dovere civico conoscere.
Per costruire le proprie allucinate storie di inibita formazione o di impossibile riscatto sociale, Garrone ha sovente promosso il succitato capolavoro di Collodi a modello narrativo da rivisitare. Paradossalmente, è quando ne ha realizzato una canonica trasposizione cinematografica, che egli meno utilmente ha saputo far rivivere questa sua abituale fonte d’ispirazione. Laddove, già in Gomorra, erano controfigure viceversa persuasive, e struggenti, di Pinocchio e di Lucignolo quei giovani, Marco e Ciro, convinti, prima di trovare per questo la morte, di potersi fare largo nell’universo camorristico praticando in proprio attività illecite sempre più rischiose. Come apparivano ciascuno dei due un alter ego del burattino di legno il protagonista di Reality e quello di Dogman, ugualmente condannati, pur senza troppo avere in comune l’uno con l’altro, a non conquistarsi forma alcuna di redenzione.
Anche in Io capitano sono un redivivo Pinocchio e un redivivo Lucignolo, i sedicenni Seydou e Moussa, a lasciare il Senegal, di nascosto dalle famiglie, per inseguire il sogno di diventare cantanti ricchi e famosi in quell’Europa di cui alcuni connazionali non mancano di tratteggiar loro un funesto ritratto. Al pari di molti uomini e donne delle più diverse età che vogliono raggiungere l’identica meta, essi dovranno dunque attraversare il deserto. Subiranno, lungo tutto il tragitto, innumerevoli estorsioni, raggiri, furti, umiliazioni. Correranno costantemente il rischio di perdere la vita e vedranno morire non pochi fra i propri compagni di viaggio. Oltre alla inattesa solidarietà di alcune vittime come loro, conosceranno le torture nei centri di detenzione libici e, sperando così di guadagnarsi la libertà, accetteranno di sopportare autentiche forme di servaggio. Riusciranno infine a salire su una carretta del mare che sarà proprio Seydou – ormai orfano delle originarie illusioni di ragazzo perché costretto a vivere anzitempo un’infernale realtà adulta – a condurre al largo di Lampedusa, nonostante l’ostruzionismo delle guardie costiere maltese e italiana.
Il film si concluderà, quindi, con quell’orgogliosa rivendicazione, gridata via radio dal giovane al mondo tutto, che ne spiega il titolo: Seydou si descriverà cioè come un vero capitano, capace di portare in salvo l’intero suo equipaggio, assumendosi la responsabilità di prendersi cura di ogni vita a lui affidatasi. Ed è impossibile, per lo spettatore italiano, resistere alla tentazione di riconoscere, in tale fiera esultanza, una polemica allusione antifrastica alla differente sensibilità etica di colui che la propria gente ugualmente ama definire “capitano”: quel Matteo Salvini i cui decreti sicurezza, passivamente recepiti dall’allora premier Giuseppe Conte cinque anni fa, hanno esposto al pericolo di morire in mare, o hanno reso cadaveri che tuttora giacciono sui fondali del Mediterraneo, chissà quanti migranti diretti dall’Africa in Sicilia. Né si può essere ipocriti: di indegni capitani – che dovrebbero preoccuparsi assai più di trovare la maniera di pulirsi la coscienza, se ci riescono, espiando le loro colpe, e assai meno di farsi continuamente ospitare nei salotti dei talkshow televisivi per ribadire le proprie ragioni presunte umanitarie – anche l’opposta fazione politica di casa nostra ne ha prodotti diversi. Qualsiasi riferimento a Marco Minniti, predecessore del leader leghista come ministro degli Interni durante il governo Gentiloni, è puramente voluto.
Ecco: per confliggere con ogni nostro assillo securitario o xenofobo, Garrone – ed è questo l’autentico punto di forza del suo film – sceglie di narrare la vicenda di due adolescenti indotti a emigrare, come anticipato, non dal bisogno – povertà, persecuzione politica, speranza di sottrarsi a una guerra civile –, ma dallo stesso, ingenuo desiderio di convenzionale autoaffermazione nutrito da milioni di loro coetanei europei. E quindi, sembra volerci chiedere Io capitano, come possiamo, noi occidentali, ritenere il modello di civiltà, che abbiamo elaborato, l’unica forma di convivenza tra gli individui realmente avanzata e libera, compiacerci di scoprirlo ovunque imitato e, anzi, rivendicare il diritto di esportarlo in giro per il pianeta, ma poi reputare “diverso” e ai nostri valori inassimilabile, respingere in quanto socialmente pericoloso, chi abbia – stimabili o meno che essi siano – sogni, slanci, obiettivi in larga misura affini a quelli che ci accendono di passione? Come possiamo credere giusto che noi si abbia addirittura il dovere di muoverci liberamente per il mondo, che le nostre merci e i nostri miti culturali circolino e abbiano mercato in ogni angolo del globo, ma poi pretendere che chi non rechi con sé capitali da investire e ricchezze da venderci debba restarsene, quale che sia la sua condizione di vita, sempre e soltanto a casa propria?
Possiamo, ci suggerisce Garrone, non perché davvero ci allarmino tutte quelle considerazioni di ordine demografico, culturale, religioso, identitario che i vari populismi, dai quali l’Occidente è da tempo infetto, sono abili a tradurre in fortunati slogan sovranisti o patriottici. Queste retoriche semplicemente occultano la reale, inconfessabile ragione da cui discende la nostra disumana ritrosia all’accoglienza: il desiderio di mantenere il privilegio coloniale storicamente acquisito. Pur terrorizzati dallo spettro dell’impoverimento, ci percepiamo cioè individui ancora “ben forniti”, e dunque sì disposti a competere spietatamente tra noi nel tentativo di incrementare ciascuno i propri averi, ma poi non meno propensi a riscoprirci comunità di eguali per proteggerci vicendevolmente dal contatto con quei nullatenenti che sia giudichiamo parassiti potenzialmente capaci di prosciugare le nostre risorse, sia abbiamo bisogno restino dei miserabili, giacché la loro miseria è l’origine stessa, non solo la garanzia, del benessere, magari ormai relativo, di cui godiamo.
Non per nulla, se in Gomorra Garrone aveva raffigurato il microcosmo camorristico – imperniato sulle logiche di una irrefrenabile guerra per i soldi tra bande rivali e aspiranti self-made men – come un’allarmante cartina al tornasole delle nostre post-democrazie – in cui un capitalismo selvaggio fa regredire l’umanità a un patologico stadio di barbarie incline a giustificare la sopraffazione degli uni (pochi) sugli altri (molti) –, con Io capitano egli ci consegna un film nel quale il vero motore dell’intreccio è, a ben vedere, di nuovo il denaro. Quello che, naturalmente, Seydou e Moussa non possiedono ma che, per poter partire, essi si procurano lavorando in gran segreto. Quello che, mentre sono ancora in viaggio per il continente nero, serve ai due ragazzi per pagarsi la sopravvivenza o una qualche chance di futuro ogniqualvolta si imbattano in aguzzini, mafie locali e internazionali, polizie di frontiera, sceicchi, scafisti fedeli, al pari delle istituzioni tutte, all’unica, feroce legge di fatto vigente: la legge del profitto.
Ma anche il denaro che, invece, a noi europei non manca e che speriamo simili approfittatori, criminali, rappresentanti africani dell’ordine costituito (di cui spesso siamo ispiratori o complici) sfilino via a quanti intendano emigrare, così che questi ultimi non riescano a congedarsi dalla loro terra o debbano arrischiare un attraversamento del Mediterraneo a tal punto malsicuro da poter avere esiti esclusivamente funesti. Come pure il denaro del quale, ormai in mare aperto e in piena notte, Seydou e Moussa di colpo scorgono – e si tratta di sequenze figurativamente maestose, paragonabili, per terribile bellezza, soltanto a quelle in cui Garrone ci trasporta nel deserto – una specie di mostruosa materializzazione appena il loro sguardo incrocia un’enorme piattaforma petrolifera. Simbolo di quella nostra natura di impenitenti sfruttatori contro cui Io capitano leva altissimo il proprio sdegno.