Leggo alcune dichiarazioni dei pochi fuoriusciti dal Partito democratico a Genova, cui fanno riscontro anche dichiarazioni di esponenti della minoranza interna contraria alla segreteria di Elly Schlein. Non si tratta di polemizzare con loro. Se non si sentono più a loro agio nel Pd, è normale che ne escano. Quando il Pd fu fondato, dopo anni di militanza nel Pci, Pds, Ds, non ho aderito a questo partito: quindi, seppure con motivazioni opposte alle mie, capisco la loro scelta. Vorrei però correggere alcune affermazioni. Parlano di “perdita della vocazione maggioritaria del Pd” e accusano Schlein di portare il Pd a essere un piccolo partito, anche un po’ settario. Ma il Pd non viene certo da prove brillanti, dal punto di vista elettorale, e la vocazione maggioritaria non c’è mai stata, era la definizione di copertura a una linea moderata e centrista, comunque minoritaria.
L’idea era quella di fare un partito dalla fisionomia indefinita, che acchiappasse voti un po’ ovunque. Una sorta di Dc contemporanea e interclassista. Questa linea è fallita: e il fatto che il partito, da anni, non si stacchi da percentuali intorno al 20% ne è la prova.
Ora, se si vogliono recuperare i milioni di voti di quello che sarebbe l’elettorato potenziale di un partito di sinistra, ma non certo di un partito moderato-centrista, questo partito deve risultare credibile tra quei milioni di cittadini che subiscono ingiustizie, discriminazioni, e sono condannati a un’esistenza sulla soglia della miseria – e quindi deve sconfessare la sua recente storia politica.
Non è sufficiente un partito che si limiti a cercare di attenuare gli effetti più deleteri del neoliberismo, sperando che dalla sua ricca tavola cadano briciole di miglioramento per queste persone. Non è mai stato così. E non può più neppure essere il partito che mette insieme sfruttati e sfruttatori, quello che un tempo, con Renzi, ha esaltato Marchionne e dileggiato i sindacati.
Se un po’ di moderati, democristiani, liberali, se ne vanno non è certo una tragedia. Coloro che non accettano di mettere in discussione il jobs act, o di battersi per il ripristino dello spirito e delle pratiche originali della riforma sanitaria, quelli che non vogliono combattere a fondo l’evasione fiscale o hanno dubbi sul salario minimo, non possono essere credibili, se si vogliono recuperare voti tra chi più soffre sulla propria pelle la situazione creata dal capitalismo neoliberista.
Infine, vorrei pregare gli amici moderati di non chiamarsi “riformisti”. Per anni ho militato nell’ala riformista del vecchio Pci, ho lottato per la sua trasformazione in un moderno partito socialista e per cercare di creare un unico partito socialista in Italia dalle ceneri del Pci e del Psi. I riformisti nella lunga storia del socialismo italiano non erano i sostenitori del liberismo, ma coloro che volevano superare il capitalismo senza una rivoluzione violenta, con metodi democratici e all’interno della dialettica elettorale. Riformista era Allende, che cinquant’anni fa fu rovesciato e ucciso da un sanguinario golpe militare. Riformista era Olof Palme, che con il piano Meidner voleva arrivare al socialismo democraticamente e in maniera graduale. Il riformismo italiano è quello che ha portato la riforma della scuola media, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, lo statuto dei diritti dei lavoratori, le 150 ore, la riforma del diritto di famiglia e la riforma sanitaria. Il resto è aria fritta.
*Presidente del Circolo Pertini di Sarzana