Negli Stati Uniti, il Paese che ha inventato le primarie, ognuno può diventare presidente – questa almeno è la favola che viene raccontata ai bambini. La realtà è molto diversa. Nella maggior parte dei casi i candidati alla presidenza provengono da due ristrette categorie: quella dei vicepresidenti, ex governatori e politici di lungo corso, e quella dei rampolli di alcune grandi famiglie che grazie alla loro ricchezza e influenza politica possono di fatto “comprarsi” la Casa Bianca. In totale su 340 milioni di abitanti la platea dei possibili presidenti si riduce a qualche centinaio di persone.
Il primo candidato nel secondo dopoguerra a “comprarsi” la presidenza fu un giovane senatore fino ad allora sconosciuto ai più, John Fitzgerald Kennedy, che oltre a un grande fascino personale aveva il merito di un padre miliardario e grande finanziatore del Partito democratico. Dopo l’uccisione di John (e cinque anni dopo del fratello Robert, anche lui candidato alla presidenza) divenne presidente il suo vice, Lyndon Johnson. Poi fu la volta di Richard Nixon, né miliardario né di illustre famiglia, ma già vicepresidente negli anni Cinquanta di Dwight Eisenhower, e già candidato alla presidenza nel 1960.
Dopo i due presidenti di transizione degli anni Settanta, Gerard Ford (repubblicano) e Jimmy Carter (democratico), che durarono appena un mandato, a conquistare la presidenza fu un ex governatore della California, Ronald Reagan, grazie alle sue indubbie capacità oratorie, ma anche alla notorietà a livello nazionale che gli derivava dall’essere stato un attore di successo.
Dopo Reagan, nel 1988, lo scettro passò al suo vicepresidente, George H. W. Bush, ricco petroliere del Texas, che perderà però quattro anni dopo contro un relativamente sconosciuto governatore dell’Arkansas, Bill Clinton. Il quale, dopo otto anni di presidenza, passerà il testimone al suo vice Al Gore, rampollo di una illustre casata dell’Est, che tuttavia, grazie all’intervento della Corte suprema perderà le elezioni del 2000 a vantaggio del governatore del Texas, George W. Bush, figlio del Bush precedente. Bush figlio quattro anni dopo troverà a contrastarlo John Kerry, erede della famiglia Forbes, tra le più importanti e ricche della costa orientale, e lui stesso coniuge dell’ereditiera Teresa Heinz (quella del ketchup e altro).
Nel 2008 piomba sulla scena, e la sbaraglia, il primo vero outsider, figlio di nessuno e per di più nero, Barack Obama, che però ha la saggezza di scegliere come vicepresidente uno dei più esperti e navigati politici democratici, senatore del Delaware da ben trentacinque anni e grande conoscitore delle stanze del potere di Washington: Joe Biden.
Terminata l’esaltante stagione di Obama, a candidarsi dopo di lui, questa volta non sarà il suo vice, ma la sua segretaria di Stato (e già first lady), Hillary Rodham Clinton, consorte di Bill, che però perde contro il miliardario newyorkese, l’immobiliarista dagli oscuri trascorsi (suoi e del padre), Donald Trump. Il quale tuttavia, dopo un solo mandato, verrà sconfitto dallo stesso Biden che era stato vicepresidente di Obama.
Fatti un po’ di conti, a contendersi la presidenza degli Stati Uniti in quaranta degli ultimi sessantatré anni, e tolti alcuni outsider di capacità politiche fuori dal comune come Reagan e Obama, sono stati gli appartenenti a una ristretta cerchia che – per ricchezza e quasi per diritto ereditario – in America gestisce il potere politico. Le primarie e le elezioni vere e proprie hanno semplicemente ratificato le scelte già fatte da questa ristretta cerchia.
Non ci si può quindi stupire se si arriva a oggi, con la campagna elettorale per le presidenziali del 2024 già iniziata, in cui i candidati dei due maggiori partiti sono, secondo tradizione consolidata, l’attuale presidente e il suo predecessore: il primo un politico di lunghissimo corso, il secondo un miliardario. Le ragioni dello stupore semmai sono altre. La prima: l’età dei due candidati, che hanno rispettivamente 80 (Biden) e 77 (Trump) anni. Nell’immaginario popolare gli Stati Uniti sono sempre stati il Paese del vigore giovanile, del dinamismo, della rapidità decisionale. Forse è ancora vero in altri settori della vita sociale, ma certamente non nella politica. I membri del Congresso americano sono tra i più anziani del mondo: i senatori hanno un’età media di 65,3 anni e i deputati di 58,9 anni. Il capogruppo democratico al senato, Chuck Schumer, di anni ne ha 72, quello repubblicano, Mitch McConnell, 81. La decana del Senato, e presidente di una importante commissione, Diane Feinstein, ha compiuto 90 anni. In confronto ai parlamentari americani, quelli europei sono dei giovincelli: i deputati e i senatori italiani hanno in media dieci anni di meno (rispettivamente 49 e 56 anni), i deputati francesi ne hanno 50, quelli tedeschi 48 e quelli del parlamento europeo 51. In Europa, Biden e Trump sarebbero un’eccezione, mentre in America sono piuttosto nella norma.
Eccetto che, sempre secondo l’immaginario popolare, il presidente americano deve essere giovane e scattante, deve essere pronto a prendere decisioni di vita e di morte (come disse una volta Hillary Clinton) alle quattro del mattino, deve essere sempre vigile; mentre invece non c’è dubbio che Biden, con le sue frequenti gaffe e i vuoti di memoria, mostri tutti i segni di un’età avanzata. Quanto a Trump, ha sempre mostrato un temperamento instabile, irascibile, incapace di concentrarsi – un temperamento da Twitter (adesso X), non da ponderato uomo di Stato. È quindi difficile dire quanto l’avanzamento dell’età possa ulteriormente peggiorare le sue capacità intellettive.
Se Biden accetterà i suggerimenti del “Washington Post” e deciderà di non ricandidarsi, come vorrebbero anche i due terzi degli elettori democratici, è difficile prevederlo. Gli esempi di leader politici di molti Paesi, in varie parti del mondo, insegnano che molto raramente un leader si fa da parte di sua spontanea volontà, a meno che non vi sia costretto. Ma Biden avrebbe anche altri motivi, oltre all’età, per farsi da parte.
Le vicende giudiziarie del figlio (indagato per possibile corruzione legata alle sue attività finanziarie in Ucraina, e ora incriminato per possesso non autorizzato di armi da fuoco) non coinvolgono direttamente il padre, ma verranno sicuramente utilizzate dai repubblicani per attaccarlo in campagna elettorale. Lo speaker della Camera, Kevin MacCarthy, ha annunciato che intende avviare una procedura di impeachment nei confronti del presidente. Anche se è certo che al Senato, dove i democratici hanno la maggioranza, verrà assolto, la mossa repubblicana fa parte di una strategia che intende infangare l’avversario per fare sembrare meno sporco il proprio candidato.
Naturalmente ben più grave è il carico di guai giudiziari che pesano sulla candidatura di Trump: un processo civile per falso in bilancio, tre processi penali di cui il più grave è quello che riguarda il suo ruolo nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Tutto questo è noto, e ormai accettato dall’elettorato repubblicano “mitridatizzato” dal martellamento trumpiano (e dei media a lui vicini), che ha finito coll’annullare la distinzione tra realtà e finzione, tra verità e bugie. Ormai quell’elettorato è disposto a credere a qualsiasi cosa dica Trump e ad accettare qualsiasi cosa faccia.
Le prossime elezioni presidenziali americane avverranno nel segno della continuità: nel senso che, ancora una volta, i due candidati principali sono espressione del potere politico ed economico. Ma allo stesso tempo costituiscono un’anomalia del sistema e una minaccia per la democrazia e la stessa sicurezza del Paese. L’alternativa che avranno di fronte gli elettori tra un anno sarà tra un candidato sempre più senile, che non offre adeguate garanzie di lucidità e capacità di controllo (tra l’altro) dell’immenso dispositivo militare, e un candidato potenzialmente golpista, che ha già annunciato di volere modificare l’assetto istituzionale eliminando le poche garanzie e i contrappesi che hanno, fin qui, salvaguardato la democrazia americana. Un’alternativa terrificante.