Solo uno spiccato senso del sarcasmo, l’umorismo non basta, può permetterci di attraversare senza convulsioni le polemiche che oggi si accendono attorno al vertice del Pd che riesuma, absit iniuria verbis, le categorie del riformismo e del massimalismo. La leggiadra Schlein nelle vesti di un novello Serrati, e l’invisibile Guerini come solenne Turati, possono solo sollecitare una nuova serie di imitazioni di Crozza e i suoi fratelli; oppure spingere l’ormai unico titolato a parlare di storia, da Annibale allo sbarco sulla luna, il ferrigno professor Barbero, a ricordarci cosa fu realmente quello scontro, alla vigilia del fascismo. Tutto diventa farsa o tragicommedia, con sullo sfondo un disfacimento di ogni aspettativa che è lecito nutrire per la sinistra.
Il dramma di Lampedusa è derubricato a semplice pretesto per punzecchiare Meloni, e l’ecatombe dei morti sul lavoro, nemmeno a quello. Nel frattempo, sono ridisegnate le mappe geopolitiche da una guerra che muta la natura e la dinamica dei suoi attori, sulla spinta di un big bang che sta deflagrando nel cuore delle istituzioni statali. Il tema che dovrebbe oggi impegnarci, e su cui ci ripromettiamo di lavorare nei prossimi tempi, con cocciuta tenacia anche se in una probabile solitudine, riguarda proprio la crisi delle leadership: in sostanza l’evaporazione di ogni macchina politica, partito o movimento, che possa in qualche modo contrapporsi all’autonomia dell’economia, o meglio ancora alla dittatura del business.
Un caso eclatante ci viene proposto proprio dalla capitale dell’impero: la Casa Bianca. Dopo la saga giudiziaria che ha derubricato il grande ritorno di Donald Trump a un caso di cronaca penale, mettendo in manette il candidato del popolo di destra, oggi si rimpicciolisce la figura del presidente in carica. Nei giorni scorsi il “Washington Post”, non certo una testata di marca trumpiana, ha sferrato un duro attacco al presidente Biden, negando che abbia titolo a ripresentare la sua candidatura. Il giornale capofila dei progressisti della costa est americana contesta all’attuale inquilino dello studio ovale sia una ormai scarsa tenuta fisica, sia soprattutto un’opacità di immagine per torbidi interessi famigliari, che ne appannano l’azione e lo rendono – per usare un termine con cui fu politicamente seppellito Berlusconi dall’“Economist” – unfit, inadeguato.
Una bocciatura che, al di là del merito, apre una voragine proprio nel cuore del sistema politico guida dell’Occidente. Infatti l’inadeguatezza di Biden, insieme all’impresentabilità dell’altro contendente, Trump, lascia senza candidati la scena politica del Paese. Dietro alle due anatre zoppe, come si definiscono i candidati compromessi, non appare nessuno a reclamarne la successione. Un vuoto che lascia la superpotenza militare e tecnologica americana senza leadership, o, cosa ancora più inquietante, senza la necessità che alla sua testa vi sia un esponente forte della maggioranza degli interessi. Paradossalmente, più si radicalizza lo scontro, arrivando a contestare persino il patto federativo degli Usa fra i diversi Stati, meno di identificano personalità in grado di coagulare i consensi del proprio campo.
Due sono dunque i fenomeni che abbiamo dinanzi: lo scollamento dello Stato, che sempre meno è un soggetto uniforme e unitario dove si esercita una sovranità istituzionale riconosciuta dalla popolazione, e una mancanza di legami e soggettività capaci di fare identificare grandi comunità con una proposta e un personaggio. Per gli Usa potremmo dire che l’impero si scompone e l’imperatore latita. Siamo a un collasso della democrazia dei ricchi per mancanza di interpreti. Quella macchina inesauribile che per duecentocinquant’anni ha assicurato alla nazione più ricca del mondo una classe politica capace sempre di interpretare e rappresentare le domande che venivano dai settori forti della dinamica della società – e che riusciva, in virtù di questa rappresentanza, a parlare al mondo – oggi sembra esaurirsi.
Il fenomeno aveva già avuto avvisaglie nei decenni precedenti, con un rallentamento della catena di montaggio che produceva gli inquilini della Casa Bianca. L’ultima fiammata fu probabilmente la cometa di Barack Obama che, dopo aver brillato per qualche anno, si è persa nelle oscurità delle cronache locali americane, senza lasciare alcuna traccia nella riorganizzazione politica del Paese. Dopo di che, l’imprevisto successo di Trump ha denunciato il vuoto che circondava il sistema istituzionale americano, sottolineando al tempo stesso il processo di scomposizione istituzionale che, anche plasticamente, ha visto pezzi di Paese accerchiare e occupare la sede del Congresso.
L’intera vicenda delle elezioni del 2016, con le interferenze esterne costituite da Cambridge Analytica, fu la conseguenza di un rattrappirsi dello spazio pubblico, come lo definirebbe Habermas, e di una sua tribalizzazione. Il popolo – fondamento unitario e reciprocamente riconosciuto della Costituzione, nell’astrazione che ha supportato l’illusionismo del federalismo statunitense – viene sostituito da uno sciame, come lo descrive il sociologo tedesco di origine sudcoreana, Byung-chul Han, in cui si formano geometrie di identità del tutto contrapposte e separabili. Gli osservatori definirono quella macchinazione, che alterò il voto in alcuni Stati, come il segno di una potenza tecnologica e di una aggressività di forze esterne, guidate dal Cremlino. In realtà si sta rivelando come la conferma di una fragilità della società politica americana, che non fu in grado né di percepire né di neutralizzare una tale interferenza, che attraversò quote consistenti dell’elettorato. Bastò spostare pochi milioni di voti (si calcola fra i quattro e i sei) per alterare un sistema elettorale non più presidiato da apparati distribuiti e decentrati.
Una realtà non dissimile da quanto oggi caratterizza anche in Europa la dialettica politica. In Francia, Germania, Inghilterra, nella stessa Spagna, le leadership sono mediocri, senza appeal, con scarsa tenuta e forza organizzativa. Lo sbandamento reazionario, che emerge da questo quadro, ci parla di una trasformazione molecolare del tessuto sociale più che di un contemporaneo e universale immeschinimento delle personalità politiche. Anche in Europa comincia a oscillare l’edificio istituzionale: Le Pen vede uno Stato francese diverso da quello guidato da Macron, e così in Inghilterra e nella stessa solida Germania, dove molti Länder cominciano a mal sopportare una guida nazionale estranea alle tematiche locali.
Siamo dinanzi a una frantumazione sociale, che arriva a insidiare la stessa neutralità dello Stato come luogo di rappresentanza degli interessi territoriali sulla scena globale, prodotta da un cambio del paradigma produttivo, guidato solo dalle proprietà tecnologiche. La fabbrica è stata anche una straordinaria macchina di identità e inclusione, in cui interessi e valori diventavano processo di massa e legavano la base operaia ai vertici del Paese. Oggi l’emancipazione di milioni di persone, sottratti alla disciplina del fordismo, inevitabilmente comporta una rinegoziazione del patto costituzionale.
Lo scenario è segnato da una moltitudine di individui, non organizzati fra loro, senza legami di spazio e di tempo, come pure l’industrialismo imponeva, che si raccolgono attorno a un sentimento di rabbia e rivalsa, che proprio il sistema a rete carica e indirizza contro bersagli del momento, raggiungendo individualmente il singolo elettore all’insaputa di tutti gli altri, che viene racchiuso in una bolla in cui manca completamente la dialettica comunitaria. L’opinione pubblica diventa così non un luogo di confronto, ma un deposito di frustrazioni che si gonfiano e si esibiscono reciprocamente nell’agitazione contro qualcuno. Questo meccanismo, che abbiamo tutti denunciato come una degenerazione del sistema, oggi è il sistema. Potremmo dire che è la fase suprema del liberalismo che vuole una società civile composta solo da individui e non da comunità o gruppi sociali aggregati, in modo da lasciare mano libera alla proprietà economica.
Il grande assente in questo scenario è il conflitto come straordinario fenomeno di integrazione e combinazione antropologica. Polemos padre di tutto il bene – diceva Eraclito. Ora scopriamo come una società che non produce conflitto, ossia non pone come priorità l’organizzazione di bisogni e interessi in modo da contrattare con il potere gli equilibri che, di volta in volta, diventano comuni, è un’ameba, una società che non genera pensiero; mentre – ci ricordavano quarant’anni fa Gilles Deleuze e Félix Guattari (in un testo che fu demonizzato da una sinistra italiana che cercava ancora le bandiere che la borghesia aveva gettato nel fango) – “la macchina informatica non è semplicemente una macchina linguistica ma invero un nuovo relais fra informazione e metadati”, in cui “la misura del plusvalore di rete è ‘cristallo’ del conflitto”. Una posizione teorica che abbiamo del tutto esorcizzato, e che forse ci avrebbe aiutato a leggere meglio quei processi che oggi ci portano all’intelligenza artificiale come servizio di massa.
In questo processo di dominio tecnologico, dobbiamo però cogliere un elemento che apre un orizzonte alla sinistra: l’egualitarismo. O meglio, una tendenza a far convergere governanti e governati. Uno degli effetti delle nuove relazioni sociali mediati dalla rete, che solo per una semplicistica e inerte considerazione si chiama ancora tecnologia, è proprio quello di promuovere l’accesso allo spazio pubblico di quote crescenti di umanità per sviluppare quei cosiddetti “fattori collettivi della produttività” – come li definiscono gli economisti che pretendono una capacità di combinazione fra dati e conoscenze sempre maggiore per ogni individuo.
In virtù di questi fattori, la contrattazione fra élite e masse si modifica. Un fenomeno che abbiamo sempre potuto osservare nell’evoluzione dei media: dai tamburi alla scrittura, dalle lettere a mano alla stampa, dal telegrafo alla televisione, ogni gradino della capacità di integrare nella sfera comunicativa comunità sempre maggiori ha incrementato l’attrito sociale e le forme di animosità e protesta. Forme che di volte in volte il conflitto sociale canalizzava, selezionando i gruppi e i linguaggi egemoni. Le élite degli scribi, le burocrazie delle pergamene, la borghesia della stampa, le guerre di religione dei libri – per arrivare ai grandi regimi totalitari che guidarono la rabbia sociale contro bersagli specifici, dai piccoli proprietari terrieri nella Russia staliniana agli ebrei nei fascismi europei.
Oggi siamo a un tornante in cui solo la proprietà del calcolo decide le forme di egemonia linguistica. Ma per avere un mercato ha bisogno di integrare nella sfera pubblica milioni, miliardi di individui, appiattendo le differenze e accorciando le distanze. Nello scenario che deriva da una lettura sovranista di Locke e di Hume – il potere era ceti più tecniche, strutture più ideologie, come scriveva, con palese adesione, Mario Tronti nella sua introduzione al primo volume di Il Politico (Feltrinelli, 1982), vedendo il “principe”, sia nella versione gramsciana sia in quella reazionaria, guidare e orientare il senso comune – irrompe una forma apparentemente caotica e insurrezionalista quale è la rete, attraverso cui il salotto dei circa quattrocento milioni di cittadini, prevalentemente bianchi e occidentali, dove si discuteva di potere, viene scompaginato da una “razza pagana” di cinque miliardi di abitanti del pianeta, che reclamano il loro diritto a sedersi a tavola, contendendo alle élite l’opzione degli inviti.
In questo caos (che intendiamo nell’accezione di Bergson, come un ordine che non riconosciamo ancora) si contrappongono le pretese dei calcolanti che programmano con i loro algoritmi linguaggi e pensieri, e le ambizioni di calcolati che si vedono sempre più simili per dotazioni tecniche e capacità cognitive alle élite. Riposizionare queste due categorie nella fornace della storia, mediante processi conflittuali – cosa del tutto distinta e distante dalle archeologiche categorie dei riformisti o dei massimalisti – che individuino modelli organizzativi e processi relazionali, in cui selezionare rappresentanze e occasionali leader, è oggi la missione che si propone a una sinistra che non voglia acconciarsi nelle pieghe di un sistema appaltato alla proprietà tecnologica, e miri invece a ritrovare una visione alternativa non solo e non tanto a un governo ma a un’idea di società.