In una celebre scena del film Il grande dittatore Chaplin, impersonando la macchietta di uno Hitler stralunato, continua a farfugliare in un tedesco approssimativo: “Wir strafen, wir strafen, wir strafen!” (“noi puniamo, noi puniamo, noi puniamo!”). È la prima, comica immagine che viene alla mente dopo la spedizione militare a Caivano. Gli “eserciti nelle strade” – quelli a lungo paventati dalla sinistra estrema – ora diventano realtà, pur assumendo un tratto di fondo caricaturale. E non è solo il misero bottino che un simile schieramento di uomini e mezzi porta a casa – un po’ di droga, qualche arma e quattro spiccioli – a dare l’impressione del grottesco, ma l’intera atmosfera in cui l’intervento si svolge, con il dispiegamento di una forza “intercorpi” che permette la parata a differenti polizie, accompagnate dallo svolazzamento di coreografici droni ed elicotteri che fanno molto Apocalypse Now.
Alle immagini del blitz, così come sono state trasmesse in televisione, mancava solo una adeguata colonna sonora musicale, magari sulle note della cavalcata delle Valchirie. Naturalmente anche la camorra legge i giornali, e ha rapidamente delocalizzato i suoi traffici, così la crociata della “riconquista delle periferie” avviene senza colpo ferire. Al di là del ridicolo, il messaggio è chiaro: i poveri vanno assediati intimiditi, puniti. La miseria viene letta nei termini della ricaduta in una condizione primitiva, ricondotta a una vera e propria regressione antropologica cui porre rimedio con la maniera forte. Barbari o imbarbariti che siano, è avvenuta una trasformazione strutturale degli abitanti, che non viene percepita unicamente nelle forme di un accresciuto timore della criminalità e della necessità di rafforzare la sicurezza interna, ma è da interpretarsi anche in chiave moralistica, come un fenomeno di decadenza dei costumi da reprimere e controllare, da deprecare e correggere energicamente.
Così, alla sfilata armata simbolica, si sommano gli interventi di contenimento giuridico e legale. L’idea che anima i provvedimenti in questione è quella di una gestione poliziesca e giudiziaria della povertà. Lo scopo, evidentemente, è quello di alleggerire lo Stato e le altre istituzioni pubbliche da ogni responsabilità circa le cause sociali ed economiche della miseria, del malessere e della insicurezza dei cittadini. Il neoliberismo alla Meloni, “mettendoci la faccia” come elegantemente dichiarato, non rinuncia in questo campo all’intervento statale, ma interviene a modo suo, con molti bastoni e poche carote, tra cui un po’ di milioni per la ricostruzione del centro sportivo e la creazione di un centro culturale.
Ma, al di là delle elargizioni estemporanee, quello che si delinea è il possibile instaurarsi di un rapporto di causa ed effetto tra riduzione del sistema delle garanzie sociali e crescita delle misure coercitive. Un passaggio segnato da alcune tendenze di fondo – che non interessano ormai solo l’Italia, ma, sia pure in maniera diversa, tutte le società occidentali –, tra le quali spiccano la crescita della popolazione carceraria, la sempre più spinta settorializzazione di tale popolazione (immigrati, disoccupati, poveri, dropout), la crescita correlata delle spese penitenziarie, l’espansione dell’impresa della carcerazione privata, lo sviluppo massiccio di dispositivi panottici (ah! le quasi universalmente invocate telecamere!) e la declinazione in senso preventivo anti-crimine delle tecnologie della smart city.
Così i recenti provvedimenti contro le baby-gang (supposto che realmente esista qualcosa da intendere sotto questo nome) hanno il sapore di un antipasto di altri più consistenti ed estesi provvedimenti analoghi a venire. Certo, fa un po’ ridere che si pensi di risolvere il problema dell’abbandono scolastico con il carcere per i genitori – prescindendo dalla liceità giuridica e costituzionale di una simile misura, a giudicare dalle cifre dell’abbandono nel nostro Paese occorrerebbe costruire diverse decine di carceri nuove per ospitarli tutti –, ma fa ridere molto meno il fatto che, nel medesimo decreto, sia presente l’incremento della pena per il piccolo spaccio: un incremento che fa saltare il possibile accesso ai benefici penitenziari di chi viene condannato. Chi viene beccato, anche con pochi grammi, andrà dentro e ci resterà. Così il punizionismo governativo otterrà il bel risultato di affollare ulteriormente le carceri, in cui già oltre il 30% è detenuto per le normative antidroga.
Ha ben sintetizzato l’associazione Antigone: “Il decreto è un coacervo di disposizioni che vorrebbero affrontare con lo strumento penale fenomeni che andrebbero affrontati con misure di tipo educativo e sociale”. Considerazioni forse da gauche caviar. Non si cura però di simili rilievi il “populismo penale”, che avanza imperterrito propagandando legge e ordine, in una sorta di malata superfetazione della “tolleranza zero” di americana memoria. E così la campagna del “noi puniamo!” – che si tratti di periferie, di scuola, di minori – prosegue e si estende. Altrove si procede in maniera diversa, sia pure con risultati discutibili; ma da noi non si vede neanche l’ombra di quanto è stato messo in campo in Francia con i quartieri prioritari nel contesto di una ormai pluridecennale politique de la ville, o in Germania con la soziale Stadt, in Spagna con i barrios vulnerables, e via dicendo, con interventi in forme diverse in tutta Europa per migliorare condizioni di vita e prevenire la criminalità.
Raddrizzare con mezzi come quelli visti finora la mala pianta delle periferie pare dunque un “vasto programma”. Dopo avere espugnato Caivano, l’assalto ai quartieri del malessere probabilmente continuerà; ma visti i numeri e le dimensioni del fenomeno, la guerra interna di “riconquista” che si profila sarà sicuramente lunga.
P. S. – La criminalità organizzata, del resto, ha già dato la sua risposta al “decreto legge Caivano”. Nelle vie del Parco Verde c’è stata una “stesa”, la notte del 10 settembre: cioè una di quelle sparatorie all’impazzata con cui la camorra riafferma il proprio dominio su un quartiere.