È sensato mettere insieme in una stessa riflessione la guerra in Ucraina, la questione dei migranti, la violenza sempre più individualizzata che si scatena quotidianamente nelle nostre città? Forse sì se l’obiettivo che le unifica è la critica a questa società democratica, ai suoi valori universali che producono antipolitica, alle sue culture senza pensiero che fanno leva sull’espulsione di ogni antagonismo o contrapposizione sociale, alle sue mentalità legalitarie e mai fondate su una realtà che si muove in tutt’altra direzione. Il problema è che a rappresentarla, questa democrazia, per vocazione governativa e per insipienza del suo ceto politico, c’è la sinistra o per meglio dire ciò che di essa è rimasto.
Scriveva Carl Schmitt in Dottrina della Costituzione: “La democrazia è una forma di Stato che corrisponde al principio di identità; è l’identità dei dominati e dei dominanti, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di quelli che obbediscono. E la parola identità è utile nella definizione della democrazia perché indica la completa identità del popolo omogeneo, questo popolo esistente con se stesso in quanto unità politica senza più bisogno di nessuna rappresentanza, perché appunto si autorappresenta”. Niente e nessuno più della democrazia è nemico della differenza. L’opinione della maggioranza, i suoi comportamenti e i suoi pensieri, quello che si chiama il “buonsenso”, diventano il senso comune di massa. Di conseguenza “chi aspira al governo deve consentire a un’opinione maggioritaria già formata” (M. Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero). Non credo infatti che, almeno in Italia, ci sia stato un presidente del Consiglio e una forza politica di governo, sia di sinistra sia di destra, che abbia fatto eccezione rispetto a questa regola.
Il collasso della politica sembra allora una conseguenza di questa capacità omologante della democrazia che conosce solo il principio quantitativo della maggioranza, che fa coincidere questo principio con la cultura del “politicamente corretto”, con i suoi universali etici indifferenziati e generici: il cosmopolitismo, la solidarietà, la partecipazione, la retorica dell’altro, i beni comuni, l’umanitarismo, la litania intorno alla coesione sociale. Imperativi morali, questi, che portano l’universalismo a un vero e proprio sistema di governo, che finisce per neutralizzare il politico: una dimensione dell’esistenza che si fonda, invece, sul principio qualitativo della differenza e segnala, quindi, una scissione irrisolvibile tra mondo delle idee e realtà, con il fallimento di ogni sintesi.
L’origine della politica è qui: senza scissione, disordine radicale, conflitto, che sono poi gli attributi del politico, non c’è politica. Il destino della politica rimane quello di dare una forma e una misura capaci di porre confini che nessun universale, che traduce ogni concreto in astratto, potrà mai assegnare. Ma di più. Porre logiche universali indeterminate alle origini della politica vuol dire fare il gioco dei potentati economici che pretendono di sostituirsi alla politica stessa. Senza la decisione, cioè senza il cuore della politica, non soltanto i diritti sono destinati a deperire o a restare fin dall’inizio lettera morta, ma la stessa pratica di libertà si traduce in un narcisismo futile, velleitario ed esibizionista. Il potere della decisione politica è un vero e proprio stato di necessità con cui necessariamente confliggere per potere innescare una domanda di libertà concreta, materiale, che voglia attraversare i territori senza ostacoli e impedimenti, che metta in crisi il governo degli stessi territori e spinga a ricercare, con urgenza, una nuova teoria del conflitto e una nuova teoria della soggettività. Le rivolte urbane del Ventunesimo secolo andrebbero lette in questa direzione.
Democrazia e libertà: è invece un rapporto complesso e mai risolto. La libertà non è il punto di arrivo di un processo democratico, perché alla fine tende a ingabbiarla, a disciplinarla, a omologarla all’autorità, a darle insomma una forma per riuscire a governarla. Non può che fare così. La libertà è, al contrario, il punto di partenza che spinge verso spazi aperti e vuoti di istituzioni, slegata da ogni ancoraggio, senza responsabilità, distruttiva, spesso oscura e insensata agli occhi della democrazia. Lo avevano capito i pionieri americani che presero a cavalcare verso ovest, verso una nuova frontiera oltre quella che delimitava le vite e la democrazia degli Stati dell’est.
Non si tratta, ovviamente, di essere contro la solidarietà e l’accoglienza, ma di criticare questi sentimenti e comportamenti come possibilità o addirittura come origine di un’azione politica, invece che valutarli per quello che sono, cioè scaturiti da idee di redenzione e di salvezza individuali. Massimo rispetto per queste idee, ma non è con la metafisica che si risolve, per esempio, la questione della emergenza della migrazione massiccia e incontrollata che attraversa il Mediterraneo e approda sulle nostre coste. Né l’accettazione – o l’integrazione o l’autonomia – di modi di vita diversi che abitano le nostre città può essere imposta solo da buonismi morali, o da principi etici universali, bensì da scelte dettate da ragioni politiche, le uniche che possano fronteggiare la natura umana con le sue incertezze, le sue contingenze e i suoi interessi di parte. Questi deve saper mediare la politica cercando di governare, tra questi deve saper decidere e trovare i propri strumenti e la propria ragion d’essere. E queste modalità dovrebbero valere anche per chi intende pronunciarsi sulla guerra in Ucraina. Provate, non dico a prendere le difese di Putin perché rischiereste la gogna pubblica, ma a far ragionare la gente in termini geopolitici, come vanno sempre considerate le guerre e le alleanze internazionali, dove non esiste il buono e il cattivo ma solo gli interessi e i rapporti di forza tra Stati, e la stessa gente vi farà scoprire cosa vuol dire vivere in una società democratica dove vige un “pensiero unico”! Un pensiero, del resto, già sperimentato ampiamente durante la crisi della pandemia.
Ma la globalizzazione del mercato e del suo ordine, che trova in questa democrazia il terreno più favorevole per la sua espansione perché più la democrazia si fa generica e omologante più la società è spinta, per la felicità del mercato e dei suoi punti di vendita, a frantumarsi in tante minoranze quante sono gli interessi che l’attraversano; il primato delle culture del consumo che si muovono in un tempo senza più attese e senza fine; la sindrome, sempre più parossistica ed esasperata, della sicurezza e del controllo, perché in una società del desiderio come la nostra, dove le mediazioni politiche scompaiono sotto la spinta delle emozioni, il conflitto diventa incontrollabile, si parcellizza e si trasforma in violenza individuale; e infine il moltiplicarsi vertiginoso dei social, dove tutti possono intervenire e scatenare una capacità di immaginazione sul proprio sé che, non sottoposta ad alcuna inibizione, non trova ostacoli nello spazio virtuale aperto, mobile, manipolabile dove ognuno si sente legittimato a produrre i propri spazi, a esprimere le proprie opinioni, e soprattutto a rendere visibili le proprie emozioni: tutto questo ha tolto alla sfera politica i suoi fondamenti operativi e ha potenziato ancora di più i caratteri identitari e neutralizzanti di questa democrazia. Sono le emozioni e non più l’azione politica a disegnare questa società democratica. Emozioni, solo emozioni e niente altro che emozioni. Tutti i mezzi di comunicazione entrano in fibrillazione per rendere gli eventi più drammatici ed emozionanti possibili, perché senza drammi, volgarità, urla, pianti non ci sarebbero storie da raccontare.
A differenza dei sentimenti, che sono una facoltà cognitiva, le emozioni sono date in natura, sono strumenti biologici potenti, innescati e guidati dagli eventi, che ci spingono immediatamente, in fretta e senza pensare, ad agire, e che indicano ciò che ci piace o non ci piace, ciò che è brutto o bello, buono o cattivo. Le emozioni dunque sono un modo per rapportarsi alla realtà, ed è importante vedere come si relazionano al mondo dell’esperienza e quali ne sono le conseguenze. Le più dirette sono quelle che riguardano il rapporto tra spazio interiore e spazio esterno: “[…] il mantenimento dell’equilibrio nello spazio esterno è possibile solo se l’individuo ha conquistato un equilibrio nel suo spazio interno, nella sua interiorità […], solo se l’individuo impara a ‘progettare’ la propria interiorità, a costruire una personalità capace di tenere sotto controllo desideri e paure […] per arginare lo tsunami della modernità metropolitana. […] Importante non è più chi si è in pubblico, ma chi si è veramente dentro” (A. Ceccherelli, E. Ilardi, Figure del controllo).
Ma, come i fatti di cronaca ci raccontano tutti i giorni, l’equilibrio dello spazio interiore, che l’individuo mette al posto di comando in una società del consumo e del desiderio, e che sempre più invade lo spazio pubblico e quello della comunicazione, salta insieme all’equilibrio dello spazio esterno. Afferma Richard Sennett che la fine dello spazio pubblico è una delle ragioni per cui la gente finisce per cercare nell’interiorità ciò che non trova nello spazio esterno. E d’altra parte quale tipo di spazio pubblico e sociale produce questa democrazia? Uno spazio in cui le ragioni, per agire collettivamente, sono subordinate alle passioni e alle emozioni individuali. Ciò che conta, più che il mondo che di fatto non si trasforma, è l’analisi del soggetto che vede lo stesso mondo in maniera estrema e occasionale, elaborato con materiali presi a prestito dalla realtà e casualmente assemblati sulla spinta appunto delle emozioni, le quali rappresentano una patologia dello stesso soggetto che, vivendo dentro una bolla formata dai social e dalla tv, non intercetta più la realtà fino a perdere qualsiasi radicamento o contatto con essa.
Le conseguenze sono la distorsione e la incomprensione della realtà stessa da parte di un soggetto che pretende – attraverso un rapporto lirico e occasionale con il mondo, che di fatto però non riesce mai a raggiungere – di trovare punti di riferimento per trasformare il mondo stesso in un regno infinito di possibilità. E allora senza indugio passa a un’azione che molto spesso si traduce in violenza o devianza.