Un anno fa si consumava un delitto (o meglio, un suicidio) politico: le forze che, per brevità, possiamo definire come della “non-destra” (ogni altra definizione “in positivo”, oltre che logorata, appare al momento insufficiente o parziale) si consegnavano divise e inermi alla più che annunciata vittoria di Giorgia Meloni. I dettagli di cronaca di quei giorni sono noti, ma saranno forse gli storici del futuro a dover ricostruire per intero lo scenario in cui maturarono quegli eventi, con il peso che ha avuto la guerra iniziata pochi mesi prima. Oggi ciò che conta politicamente è altro: si sta veramente pensando a evitare un remake del 25 settembre 2022?
Proviamo a mettere alcuni punti fermi. Il primo è quello dato dai vincoli del sistema elettorale. È assai improbabile che l’attuale legge elettorale possa cambiare, e quindi rimane la necessità di costruire una coalizione preventiva, se si vuole che le elezioni siano davvero aperte e competitive. Per una volta, possiamo anche mettere da parte i consueti, e spesso ben giustificati, lamenti sugli errori e i limiti delle “non-destre”; i principali protagonisti stanno dimostrando una certa saggezza politica: da un lato, si cercano e si stanno trovando terreni programmatici comuni; dall’altro, si stanno evitando (tra Conte e Schlein, soprattutto) polemiche dirette e distruttive sui temi più divisivi, che avrebbero il solo risultato di lasciare macerie alle spalle.
Quindi, una road map sembra obbligata: proseguire in una paziente opera di mediazione e di convergenza, su quanti più possibile argomenti, che faccia crescere agli occhi dell’opinione pubblica la credibilità di un possibile schieramento alternativo. Basterà? No, di certo. Resteranno alcuni temi su cui è difficile ipotizzare un vero e completo accordo politico, a cominciare purtroppo dalla questione della guerra in Ucraina. L’unica possibile via, allora, sarà quella di percorrere la strada che non si è saputo, o voluto, percorrere lo scorso anno: un ampio accordo elettorale che non implichi, necessariamente, una convergenza politica e programmatica integrale.
Troppo astruso? Non direi. Sarebbe davvero così incomprensibile se ci si rivolgesse agli elettori dicendo: “È vero, su molte cose siamo d’accordo, su altre la pensiamo diversamente: ma pensate che, solo per questo, dovremmo (un’altra volta!) regalare alla destra la vittoria su un piatto d’argento! Con questo accordo ci proponiamo di neutralizzare le gravi distorsioni della rappresentanza prodotte da questa legge elettorale: vogliamo semplicemente che ogni forza politica abbia un peso in parlamento pari al suo effettivo consenso nel Paese. Non possiamo permettere che si ripeta quanto accaduto nel 2022, quando una coalizione con il 44% dei voti ha ottenuto il 60% dei seggi alla Camera. Qualcuno dirà: e poi con il governo che succede? Si vedranno i rapporti di forza in parlamento, e saranno gli elettori a definirli con il loro voto: siamo in una democrazia parlamentare, è una pura sciocchezza dire che bisogna conoscere il nome del “vincitore” la sera stessa delle elezioni.
Certo, un discorso di questo tipo presuppone un altro elemento che lo rafforzi: che le forze della “non-destra” presentino subito una proposta di riforma elettorale in senso proporzionale, che abbia al suo centro anche un tema che potrebbe risultare molto apprezzato e popolare nell’opinione pubblica: ridare agli elettori un potere di scelta sugli eletti. Così come si è fatto sul salario minimo, si potrebbe presentare un disegno di legge condiviso, su cui lanciare una campagna politica nel Paese. La destra direbbe di no? È certo, e altamente probabile che faccia le barricate per difendere un sistema elettorale perfettamente calibrato sulle sue esigenze. Ma quanto meno si porrebbero la basi per giustificare ulteriormente, quando sarà il momento, un accordo elettorale di tutte le opposizioni: “Non avete voluto cambiare la legge elettorale? Bene, ma non penserete che allora noi ci si debba arrendere mani e piedi legati alla vostra prepotenza?”. Si eviterebbe così, tra l’altro, di ripetere l’incresciosa e imbarazzante situazione in cui si trovò avviluppato il Pd di Letta, lo scorso anno: chiedere il “voto utile” a causa di una legge che portava il nome del suo stesso ex capogruppo! Con quale credibilità, si è visto…
Oggi ci sono forse le condizioni politiche per un accordo delle opposizioni su una proposta di riforma elettorale in senso proporzionale: da ultimo anche Carlo Calenda, in un’intervista del 18 agosto, ha detto “finiamola con questo bipolarismo, torniamo al proporzionale” (e ciò, va notato, nel momento in cui Renzi ripropone la sua aberrante proposta del “sindaco d’Italia”: preda, evidentemente, di un’insopprimibile coazione a ripetere). Ma anche dentro il Pd si impone un chiarimento e occorre che emerga pienamente un dibattito finora rimasto ovattato da troppi diplomatismi interni: i fautori della “cultura del maggioritario” dovrebbero finalmente prendere atto che questa prospettiva ha portato lo stesso Pd in un vicolo cieco. Una effettiva capacità di direzione politica, da parte di questo partito, potrà esprimersi solo in un contesto strategico completamente diverso, con la costruzione di un’alleanza che non potrà che essere plurale. Meglio pensarci per tempo.