Parco Verde è più grande di Caivano, se lo pensiamo nella prospettiva dei venti milioni di italiani che vivono in periferia. Cinque minuti sotto la luce dei riflettori non si negano a nessuno, ma nella rara occasione mediatica, che sottrae per una volta questa remota periferia napoletana alla invisibilità, le immagini che scorrono hanno qualcosa di familiare: si riconoscono le stigmate comuni ad altri luoghi analoghi. I casermoni decadenti e abborracciati stile banlieue francese, la desolazione, le strutture sportive disertate e inselvatichite (la piscina abbandonata teatro dello stupro), l’atmosfera di relegazione e di sofferenza, i segni della miseria. L’elenco sarebbe lungo. Certo, le periferie non sono tutte così, ne esiste una serie di varianti; ma quel che hanno in comune è l’abbandono e il disinteresse da parte del mondo delle istituzioni.
A partire dagli anni Novanta, la politica ha completamente rinunciato a interventi significativi. Le periferie – si supponeva – avrebbero dovuto progressivamente cavarsela da sole. La loro scomparsa dall’agenda politica è dovuta alla riduzione delle risorse pubbliche da destinare alle città, alla definitiva chiusura dei programmi di edilizia popolare e, infine, all’incapacità di pianificare modalità e crescita degli insediamenti. È ormai pluridecennale l’assenza di interventi pubblici, tanto più grave in quanto nella crisi le periferie sono cresciute, cambiate – e non in meglio. A nulla è valso, nel 2017, il rapporto finale della Commissione parlamentare di inchiesta sul degrado delle periferie. Si direbbe che non lo abbia letto quasi nessuno. Non solo la politica è stata cieca: anche gli specialisti non hanno visto o hanno visto male: il postmoderno, in architettura e urbanistica, ha creduto addirittura di poter celebrare la “fine delle periferie”, con l’affievolirsi delle vecchie centralità. Quando si è cominciato a intravedere nuovamente la nuova dimensione del problema si sono sparsi fiumi di chiacchiere, e si sono intessuti i velenosi e ambigui merletti del “rammendo” propagandato da Renzo Piano, tanto sostanzialmente inutili, quanto buoni per tutti gli usi della retorica e della autogiustificazione.
Ha colto bene questa realtà Franco La Cecla quando ha scritto che la periferia oggi è “il luogo del rimosso”. Rimozione che non è solo la scomparsa dall’immaginario collettivo: man mano che le periferie sono diventate più complesse, si sono ridotte le possibilità che fossero viste, comprese, rappresentate: il problema era cresciuto fino ad assumere dimensioni che nessuno voleva vedere. Assenza di rappresentanza non solo politica, ma anche simbolica, mancanza di presenza mediatica, cancellazione della possibilità di fare sentire la propria voce e di vedere dibattuti pubblicamente i problemi. Non è un caso che l’unico “politico” che parli, a Caivano, sia il parroco. Gli altri non ci sono. Finita la passeggiata simbolico-rituale, cessato un piagnisteo moralista ai limiti dell’assurdo (“vietiamo la pornografia in Internet”) e terminata la breve orgia mediatica, spariranno come non ci fossero mai stati.
E non sono gli unici assenti: dove sono i tecnici, gli architetti, gli psicologi, gli assistenti sociali, i sociologi, i mediatori culturali, gli educatori, tutti coloro che dovrebbero essere presenti quotidianamente in questi luoghi? La premier parla di “zone franche”, e certo queste sono “zone”, ma non nel senso da lei inteso, come spazi criminali, al di fuori del controllo. Le “zone” sono quei territori del nulla, quelle parti della città che sono inutili, dove non c’è economia, non ci sono attività se non informali, e che servono tutt’al più come discarica umana e materiale. Sono in moltiplicazione in contesti urbani sempre più diseguali, in cui la povertà comincia a insinuarsi anche in quartieri un tempo considerati centrali. Non solo a Napoli, non solo nelle città del Sud. Ci sono “zone” anche a Genova, a Torino, perfino nella ricca Milano.
Parco Verde mostra così, ancora una volta, che le periferie nel nostro Paese attirano l’attenzione, e divengono visibili, solo quando sono teatro di fatti clamorosi, di episodi di violenza, quando destano preoccupazione e paura. Divengono allora oggetto di una specie di ossessione preventiva, l’attenzione loro riservata, però, si manifesta prevalentemente in chiave poliziesca e securitaria. Lo vediamo benissimo nelle dichiarazioni dei giorni scorsi, dove si fa a gara a chi fa la faccia più feroce, tra promesse di pattugliamenti, invocazioni di esercito nelle strade, minacce di controllo asfissiante del territorio. Come se lo spaccio e la criminalità non venissero dopo, dopo l’abbandono, dopo la povertà, dopo l’ignoranza, ma fossero il frutto di una sorta di caratteristica antropologica degli abitanti. Un’antropologia hobbesiana della miseria, che corre lungo l’asse mediano di Napoli, su cui incombono invece e si disegnano con chiarezza le forme classiche della povertà: quella materiale, quella culturale, quella sociale e quella sanitaria.
Così, mentre impazza la retorica giornalistica e politica più scadente, non si dice una parola sui cambiamenti della politica, sugli effetti di produzione di diseguaglianza spaziale che derivano dalle decisioni dei governi, sulla rovinosa concorrenza tra distretti, città, e regioni per accaparrarsi risorse, per attrarre capitali. È proprio a partire da questo che si dovrebbe affrontare l’unico vero e proprio scandalo della vicenda di Caivano, rappresentato dal fatto che in questo Paese le possibilità individuali di plasmare la propria vita sono sempre più determinate dal luogo di residenza. E non sarà il mercato da solo, come vorrebbero gli epigoni dell’economia regionale neoclassica, ad appianare le disparità regionali in fatto di povertà e ricchezza. Al contrario, lo sviluppo spazialmente diseguale è una delle caratteristiche del capitalismo contemporaneo, che può essere limitato soltanto – e solo in misura ridotta – da misure politiche di controllo degli investimenti e di energica ridistribuzione di reddito, di cui peraltro da nessuna parte si vede traccia. Così, nel frattempo, mentre a Caivano si strepita a vanvera, altri Parco Verde crescono…