(Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2023)
Nella biografia di Michele Sindona, scritta da Nick Tosches, il giornalista a un certo punto gli rivolge una domanda irriverente: “In Italia chi riciclava i soldi della mafia?”. Il finanziere risponde che non può dirlo, sbilanciandosi solo con una frasetta: “A Milano c’era una piccola banca senza sportelli al pubblico, la Rasini”. Ecco, era quella diretta dal papà di Silvio Berlusconi, l’imprenditore morto oggi a 86 anni, dopo avere reso l’Italia soggiogabile con le sue televisioni. Ed è da quel piccolo angolo di mondo che, verosimilmente, partì l’epopea dell’imprenditore “fatto da sé” – in realtà con i soldi della mafia, circostanza accertata dalla sentenza contro il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri. Questi fu condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per avere garantito il passaggio di denaro da Cosa nostra alla Fininvest. Tuttavia i giudici sostennero che di quella operazione non si poteva provare la consapevolezza di Silvio Berlusconi, cioè dell’utilizzatore finale: dunque Marcello si fece il carcere senza disturbare il manovratore, che girava intanto laute mance sul suo conto.
In quella vicenda c’è il paradigma della storia giudiziaria di Berlusconi: trenta processi sparsi in tutta Italia, tra prescrizioni e assoluzioni, contestati i reati che vanno dalla corruzione al concorso in strage, dal falso in bilancio alla concussione, fino al vilipendio dell’ordine giudiziario e alla prostituzione minorile, ma una sola condanna diventata definitiva nel 2013: quattro anni di carcere, tre dei quali coperti da indulto, per la frode fiscale da 7,3 milioni di euro commessa con la compravendita dei diritti tv Mediaset, quando era presidente del Consiglio. Condanna, questa, che lo costrinse a chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali di dieci mesi e mezzo, al netto dello sconto per la liberazione anticipata, portandolo poi alla decadenza da senatore per via della legge Severino: una incandidabilità durata sei anni, fino a quando, nel 2018, il Tribunale di sorveglianza lo ha riabilitato.
La sua lunghissima storia giudiziaria è fatta di archiviazioni, di proscioglimenti, oppure di assoluzioni con formula talvolta piena e talaltra dubitativa (come per uno degli episodi di corruzione contestati nel caso Sme-Ariosto), o ancora di prescrizioni, complice sia la tecnica dilatoria usata dalla sua difesa e dai legali dei suoi coimputati, sia la concessione delle attenuanti generiche, più qualche norma escogitata ad hoc come la ex Cirielli.
Ci si può girare intorno attraverso mille cavilli, ma il suo rapporto con Cosa nostra resta un punto fermo della storia italiana, scritta dai tribunali: è la storia con cui il Paese dovrebbe fare i conti, al di là della esistenza o meno di quella fotografia che lo ritrarrebbe con Giuseppe Graviano, come pretende l’ex autista del boss che forse ha consegnato la foto alla procura di Firenze, che indaga sui mandanti delle stragi del 1993. Quel filone d’indagine non morirà con lui, perché prosegue per il suo coimputato Dell’Utri. Ma, se anche non dovesse portare a nulla, Berlusconi non sarà comunque assolto dalla storia, per avere messo insieme ex fascisti, separatisti leghisti ed ex golpisti della P2, in un blocco politico che si è impossessato dell’Italia sbaragliando un’opposizione rimasta a guardare, senza fare davvero tutto quel che poteva per fermarlo.