(Questo articolo è stato pubblicato il 30 marzo 2023)
Segretario, il vostro giudizio del nuovo Codice appalti è negativo e avete già deciso di scendere in piazza con la Uil e di avviare una grande vertenza, dal primo luglio, quando le nuove norme entreranno in vigore. Perché non vanno bene queste nuove regole e quali sono i pericoli principali?
Innanzitutto il prossimo primo aprile, dopodomani, scenderemo in piazza, in cinque periferie a Torino, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari per difendere l’occupazione, il lavoro di qualità, a partire dal settore pubblico ma non solo: un modello di sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale e il recupero delle nostre città. A partire proprio dalle periferie. Parleremo dei bonus, ma anche del nuovo Codice degli appalti. Si vedano la piattaforma, i programmi delle manifestazioni, le diverse adesioni (associazioni ambientaliste, degli inquilini, consumatori, studenti, ecc.) sullo specifico sito.
E proprio sul nuovo Codice degli appalti diciamo che sono diverse le cose che non vanno, e che sottintendono un preciso modello: “spendere subito” e “spendere solo per qualcuno”, indipendentemente da come spendere, dallo spendere bene, dall’usare le risorse pubbliche (sono tali sia gli incentivi pagati dalla fiscalità generale sia gli appalti pubblici) per qualificare le imprese e il lavoro, guardando al futuro delle nostre città e del Paese. Nel nuovo Codice, prima di tutto, diventa regola generale quella che era un’eccezione in fase di pandemia. Cioè la possibilità di dare appalti senza gara pubblica fino a cinque milioni e 380mila, l’80% degli appalti. Questo vuol dire meno trasparenza. Vuol dire che il sindaco di turno per i bassi importi (fino a 150mila euro) può assegnare un contratto direttamente a Tizio o Caio senza motivarlo. E dai 150mila fino a cinque milioni e 380mila deve solo invitare cinque o dieci operatori che sceglie lui. Nasceranno dei veri e propri cartelli, blocchi economici, e magari elettorali e di interesse. E se proprio qualcuno rimane fuori, nessun problema. Avendo liberalizzato i subappalti, qualche briciola ci sarà per chi “rompe”. Poi c’è la liberalizzazione del subappalto.
Perché questa preoccupazione per la liberalizzazione del subappalto?
Oggi è vietato il “subappalto del subappalto” negli appalti pubblici, da domani sarà liberalizzato. Di fatto portiamo le porcherie dell’edilizia privata (dove si registra il 90% degli infortuni mortali, il lavoro nero, il ricorso a contratti nazionali di lavoro in dumping, un “cottimismo” etnico enorme) nel settore pubblico, alimentando uno scadimento qualitativo, dell’impresa e del lavoro, con i soldi pubblici.
Da domani, un soggetto potrà prendere un lavoro pubblico a dieci, subappaltarlo a un altro a nove, poi quest’ultimo lo potrà subappaltare a un terzo a otto, e il terzo a un quarto ecc., teoricamente all’infinito. Peccato che questo voglia dire, nel concreto (perché le imprese non sono dame di carità), che a ogni livello di subappalto si dovrà risparmiare, e lo si potrà fare solo ricorrendo a macchinari più vecchi o a materiali più scadenti, o, come avviene nell’edilizia privata, comprimendo salari e tutele, a partire da quelle sulla sicurezza. Si incentiva il dumping, la destrutturazione delle imprese di medie dimensioni, che magari hanno investito in questi anni, la moltiplicazione dei soggetti in cantiere: e tutte le tutele pensate quando vi potevano essere al massimo due soggetti (appaltatore e subappaltatore), diventeranno tutele più difficili da esigere. Dalla verifica di parità di trattamento economico e normativo, e stesso Ccnl lungo la filiera al Durc di Congruità, dal rispetto dei Ccnl edili all’applicazione dei piani per la sicurezza. Quel che si sta scoprendo in Fincantieri (duemila lavoratori stranieri “in nero” o “in grigio”) accadrà domani anche sulle opere per l’alta velocità, per la costruzione di scuole e ospedali, ecc. Immaginatevi un cantiere con sette imprese che stanno contemporaneamente sulla stessa lavorazione, con sette capisquadra diversi, con lavoratori che non si conoscono, a cui si applicano magari Ccnl diversi, pur facendo lo stesso lavoro. Senza considerare che, allungando la catena dei subappalti, si facilita l’infiltrazione criminale, a partire da chi può prendere lavori sotto costo, perché l’obiettivo è riciclare denaro sporco…
Per alcuni il nuovo Codice introduce elementi importanti di novità come la digitalizzazione, con la creazione di una grande banca dati dei contratti pubblici e di un’interconnessione di tutti i soggetti e le stazioni appaltanti che, in Italia, gestiscono procedure per lavori, servizi e forniture. Che cosa ne pensate?
La digitalizzazione dei processi, la Banca dati unica e lo stesso Fascicolo virtuale dell’operatore economico sono aspetti positivi, da sempre rivendicati dal sindacato. Infatti svolgono una funzione positiva nel ridurre i cosiddetti “tempi di attraversamento”, cioè i tempi per le varie procedure amministrative e di verifica. Serve però personale tecnico – informatici e non solo – che oggi manca. Detto ciò, la qualificazione delle stazioni appaltanti, magari anche una loro riduzione di numero, non c’entra nulla con gli interventi sulla fase “esecutiva”, cioè quando il cantiere è partito. Per di più, la Banca dati, così com’è proposta, fotografa la realtà ex ante. Un’azienda può essere in regola prima di partecipare a una gara, può avere tutte le “carte” in ordine: il problema è chi controlla, chi garantisce la neutralità della progettazione e il rispetto delle regole ad appalto in corso.
Un’altra questione delle vostre battaglie sindacali riguarda il superbonus. A che punto siamo? Ed è vero che le nuove regole metteranno a rischio migliaia di posti di lavoro?
I vari bonus edili hanno avuto dei limiti enormi, così come lo strumento della cessione del credito e dello sconto in fattura. Noi abbiamo sempre denunciato che era uno strumento giusto per i suoi obiettivi (l’efficienza energetica, la messa in sicurezza antisismica, l’abbattimento delle barriere architettoniche), anche per raggiungere gli obiettivi Onu e Ue sulla transizione energetica (il 40% di tutto il Co2 è prodotto da case vecchie, così come il 35% degli sprechi energetici totali) e per la messa in sicurezza del territorio (ogni anno spendiamo otto miliardi per riparare i danni degli eventi calamitosi), oltre che per l’invecchiamento attivo (le barriere architettoniche impediscono a milioni di anziani di vivere il quartiere, ecc.), ma era sbagliato nell’accesso.
Cioè?
Cioè dava la stessa quantità di sostegno: allo stesso modo, indipendentemente dal reddito, dalla condizione della specifica casa, ecc. Noi avevamo chiesto e chiediamo di limitare gli incentivi solo alle prime case, alle case in classe energetica più bassa (E, F, G), differenziando per reddito, e lasciando sconto in fattura e cessione del credito solo per incapienti e redditi bassi. Quindi il fatto che si dava tutto a tutti, comprese le seconde case e i redditi più alti, era sbagliato. Ora però, togliendo la cessione del credito, e lasciando solo le detrazioni fiscali, stiamo dicendo che gli incentivi saranno utilizzabili solo da chi ha liquidità immediata e redditi medio-alti e quindi una capienza fiscale tale da poter recuperare l’80% o il 65% degli importi, in pochi anni. Insomma, ora è una politica solo per i più ricchi. Peccato che dei cinque milioni di unità abitative private (a cui dobbiamo aggiungere gli edifici pubblici), che sono più energivore o a maggior rischio sismico, la maggior parte stia in periferie, in aree interne, e che sia di proprietà dei meno abbienti. Insomma, finché si trattava di rifare le ville a Briatore tutto ok, ora che si cominciava a ristrutturare i condomini, le case popolari, le zone periferiche, si ferma tutto. Ed è chiaro anche l’impatto sull’occupazione: essendo i redditi medi e medio-bassi molti più dei ricchi, decine di migliaia di cantieri previsti verranno meno. Ma lo ripeto: il problema è duplice. Si colpisce l’occupazione, si colpisce un modello di sviluppo del Paese e del settore (edilizia ma anche materiali), basato più sul recupero che su nuove costruzioni; e si colpisce soprattutto l’ambiente, rendendo la sostenibilità, il risparmio energetico (e quindi anche bollette meno care) roba da ricchi. Gli obiettivi europei che abbiamo (compresi, da ultimo, quelli individuati dalla direttiva sulle “case green”) si raggiungono però se diventano obiettivi di massa, giusti e convenienti per chi sta peggio.