(Questo articolo è stato pubblicato l’8 marzo 2023)
Le immagini dei detenuti salvadoregni hanno fatto negli ultimi giorni il giro del mondo: ammanettati, con la testa bassa, e i tatuaggi tipici dei pandilleros bene in vista, quasi accovacciati uno sull’altro nel nuovo mega-carcere aperto nel Salvador. Si tratta del Centro de confinamiento del terrorismo (Cecot), presentato come la più grande prigione dell’America latina, fortemente voluto dal presidente Nayib Bukele, nel contesto della “guerra contro le bande” portata avanti dallo Stato salvadoregno (di cui ci siamo già occupati qui).
Il Centro è stato inaugurato il 31 gennaio a Tecoluca. Secondo il governo, nelle strutture saranno rinchiusi circa quarantamila detenuti. Il Cecot dispone di una specifica tecnologia per scansionare ed esaminare ciascuno dei detenuti, oltre che di una sorveglianza militare interna ed esterna permanente. Nel complesso carcerario c’è una serie di celle che ospiteranno fino a ottanta detenuti l’una, mentre un diverso trattamento è destinato a chiunque finisca in isolamento: in questo caso, il detenuto verrà trasferito in una cella buia, senza luce naturale né artificiale, con uno spazio personale ristretto e controllato. L’intera struttura non è dotata di cortili, spazi ricreativi o aree di incontro: quindi i detenuti sono autorizzati a lasciare la cella solo per assistere ai processi, che avverranno, però, in modalità virtuale azzerando ogni contatto possibile con il mondo esterno.
Già duemila prigionieri sono stati trasferiti nel Centro, ed è lo stesso Bukele a condividere le immagini che hanno acceso il dibattito sulla condizione dei diritti umani in questo carcere: prelevati dalle loro celle dagli agenti penitenziari, ammanettati e costretti a camminare con il corpo piegato, vestiti solo con biancheria intima bianca e le mani dietro la nuca. Nel vedere queste immagini appare chiaro il motivo di preoccupazione delle organizzazioni per i diritti umani. Amnesty International e Human Rights Watch hanno messo in guardia sulle condizioni “subumane” in cui vivrebbero i detenuti, alcuni dei quali sono effettivamente appartenenti a bande pericolose come la Mara Salvatrucha (MS-13), mentre altri non sono stati neppure condannati, e sono rimasti vittime di arresti arbitrari nell’operazione di guerra contra pandillas: una “guerra” che ha visto uno stato d’emergenza prolungato per diversi mesi, durante i quali molte garanzie sono venute meno e numerosi sono stati gli arresti illegittimi. Questo è stato confermato da un report di Humans Right Watch, pubblicato dopo che erano stati resi noti dei database governativi, con l’elenco delle persone arrestate tra marzo e agosto 2022, cioè nel periodo dello stato di emergenza, in cui si sosteneva che migliaia di persone, tra cui centinaia di bambini, sono “state arrestate e accusate di reati definiti in modo impreciso e approssimativo, e che violano le garanzie fondamentali del giusto processo dei detenuti”.
Anche il presidente colombiano, Gustavo Petro, si è espresso sulla questione, definendo il Centro un “campo di concentramento, che vorrebbe far credere ai cittadini che questa sia la vera sicurezza, facendo così salire alle stelle la popolarità (del presidente, ndr)”. A ciò Bukele risponde sul suo account Twitter, dicendo semplicemente che i risultati contano più della retorica.
Dalla pagina Twitter di Amnistía Internacional Américas trapela ancora molta preoccupazione: l’organizzazione ha infatti denunciato un modello di violazione dei diritti umani nell’ambito dell’attuale approccio alla sicurezza pubblica in El Salvador. La costruzione della nuova prigione è un segnale inequivocabile che le autorità intendono continuare ad applicare una politica della carcerazione di massa, senza affrontare le cause profonde della violenza nel Paese.
Anche gli Stati Uniti si sono uniti agli avvertimenti sulla protezione dei diritti umani. Lo hanno fatto attraverso il portavoce della diplomazia locale, che ha ricordato la “responsabilità di garantire la sicurezza della popolazione”, ma anche la necessità di rispettare i diritti umani. Pur sottolineando “la sfida” che “fermare la violenza delle bande” rappresenta per il Paese centroamericano, è stato ribadito che lo Stato deve “garantire un giusto processo legale”.
La decisione del governo di Bukele di intervenire con il “pugno di ferro” contro le gang, dette maras, è arrivata dopo che la situazione era ormai finita fuori controllo: dal 2021 il Paese ha avuto mesi di violenza e tassi di omicidi alle stelle. Questo apparato repressivo, e questo modello di sicurezza, hanno permesso in alcuni casi di arrestare membri importanti delle maras, colpevoli di omicidi e altri reati; ma, come afferma Omar Serrano, direttore della “proiezione sociale” presso l’Università centroamericana José Simeón Cañas (Uca), “il problema è che non c’è alcuna intenzione di riabilitare tutte quelle persone che verranno rinchiuse lì; si va da persone che hanno commesso delitti e hanno le mani sporche di sangue, a ragazzi che hanno fatto da messaggeri, che possono essere recuperati, che devono essere riabilitati”. A suo avviso, questo gruppo di più giovani “non dovrebbe ricevere parità di trattamento, né il messaggio che non ne usciranno fino alla morte”.
La violenza che ha colpito da anni il Paese ha contribuito a convincere l’opinione pubblica della legittimità di questo tipo di intervento, arrivando a considerare normale la sospensione dei diritti umani dei detenuti a favore di una ritrovata sicurezza nazionale. La polizia salvadoregna ha privato migliaia di persone della libertà con qualsiasi pretesto, giungendo persino a recintare e isolare interi quartieri con la scusa di rastrellare i membri delle bande. Secondo questo modello, stando ai dati di Insight Crime, Bukele ha fatto arrestare più di diecimila uomini in soli diciassette giorni nel 2022. Ma il pugno di ferro potrebbe non essere la soluzione, e il Paese dovrebbe interrogarsi su quale sia il limite della coercizione giustificabile in nome della sicurezza.