(Questo articolo è stato pubblicato il 9 gennaio 2023)
Si ripresentano periodicamente al centro del dibattito educativo-pedagogico alcune questioni affrontate con leggerezza, magari con gli amici dopo una cena, o sul taxi rientrando a casa. I temi di questi giorni sono: l’uso del cellulare in classe e l’utilizzo del “lei” per rivolgersi ai docenti. Quando questi argomenti, trattati con leggerezza e con poca complessità cognitiva, diventano il cuore del confronto pedagogico istituzionale, allora la questione si fa seria, perfino imbarazzante. Entrambe le questioni sono enormemente significative, sia sul piano sostanziale sia su quello simbolico; il problema è che vengono troppo spesso analizzate come se non fossero frutto di un processo culturale complesso e multidimensionale, ma viste come atti separati dal contesto e soprattutto dalla relazione educativa che li ha generati.
Se al posto della retorica da ancien régime – secondo cui “i ragazzi non son più quelli di una volta”, “non danno più del lei e sono sempre attaccati a quei cellulari” –, si riportasse la filosofia dell’educazione al centro del discorso pedagogico italiano, ci ritroveremmo a parlare di cose sensate, e forse sapremmo pure in che direzione andare. A essere veramente in crisi, in questo tempo, è sicuramente la relazione educativa. Quali cambiamenti strutturali dovrebbe affrontare la scuola per ripensarla e rifondarla?
Diceva bene Romei (nel suo testo Autonomia e progettualità, del 1995), quando sottolineava che “i rapporti che si possono stabilire tra azione (insegnamento) e risultati (apprendimento), non possono essere, deterministicamente, causali, ma devono essere, probabilisticamente, congetturali”. Il legame eccessivamente debole tra azione e risultati non può che innescare meccanismi di sfiducia a partire dalla delusione che si prova nel vedere tradite le proprie attese.
In famiglia, come a scuola, risulta allora evidente che la fiducia non può trovare radici nella perfetta corrispondenza tra azione e risultati. Occorre un salto di qualità della fiducia, che sappia andare oltre le prestazioni e l’affidabilità. È molto interessante, a questo proposito, la definizione che ne dà Simmel nel 1908: “Si crede in una persona senza che questa fiducia sia giustificata dal fatto che la persona in questione ne sia degna, talvolta anche senza alcuna prova della sua affidabilità”. Simmel cerca di uscire da quella struttura, anche un po’ soffocante e comunque inutile nella contemporaneità, ovvero della corrispondenza tra fiducia e affidabilità. Egli ribalta la relazione. Non è l’affidabilità che suscita la fiducia, ma si crede in una persona e si deve aver fiducia in questa persona nonostante le prove del contrario, cioè anche in presenza di inaffidabilità, tant’è vero che nel corso delle pagine successive Simmel parlerà di scommessa.
A scuola spesso succede il contrario. Spesso si ha fiducia in un ragazzo o in una ragazza, perché lui o lei si dimostrano competenti. Spesso si ha la tendenza a ridurre la fiducia a una somma di competenze che si possono o meno riscontrare negli altri. Quindi non stiamo parlando della fiducia secondo Simmel.
Nella fiducia c’è qualcos’altro, c’è qualcosa in più, c’è qualcosa di non modellabile, c’è una scommessa e un salto nel buio. Ecco perché la grammatica della fiducia è una grammatica complessa: proprio in virtù di questa asimmetricità, di questa bellezza, che ci insegna qualcosa di fondamentale sulle relazioni umane.
È importante ripensare la relazione educativa costruita sulla fiducia, perché questa scommessa di fiducia permette di credere in se stessi, di avere accesso alla consapevolezza del proprio valore. La fiducia tra due esseri umani nasce a partire dal momento in cui ci si sforza di abitare e soggiornare in un luogo incerto, di transito, nello spazio dell’andirivieni dell’incontro. Abbiamo bisogno che qualcuno abbia creduto in noi per poter credere in noi stessi, per potere a quel punto credere negli altri.
A preoccuparmi come docente non è che mi diano del lei o del tu o del voi, ma che ci sia fiducia, stima e rispetto nell’impegno reciproco. Mi interessa che esista un patto forte tra noi; di più, che esista un “noi”, una comunità educante sentimentalmente connessa. Questa connessione è il risultato di un riconoscimento e di un rispecchiamento reciproci. Se riusciamo a creare questa dimensione dialogica e relazionale, non c’è più nessun cellulare che tenga, non c’è bisogno del lei, e la lezione accade con garbo e qualità, perché prevalgono la fiducia e la cura. Il tema dell’adolescenza è fortemente legato al tema della fiducia. Ciò si rende ancora più necessario nel terzo segmento di studi, la secondaria di secondo grado, in cui lo studente, dispiegando pienamente la sua esistenza adolescenziale, ha bisogno di una forte reciprocità nel rapporto fiduciario che lo lega agli insegnanti
Un esempio letterario aiuta a capire il senso profondo di una relazione di fiducia come scommessa: la straordinaria storia nei Miserabili di Victor Hugo, tra il vescovo e il giovane Jean Valjean, in cui quest’ultimo è aiutato dal gesto del vescovo Myriel. Jean è libero, Myriel ha mentito e lo ha scagionato, ha scelto ancora una volta di fidarsi di lui. La volontà del vescovo di accordare fiducia, oltrepassando l’inaffidabilità dimostrata, muove potentemente Jean a perseguire una via di rettitudine.
Ognuno nella relazione ha bisogno di essere amato, di essere riconosciuto, di non essere scartato, in quanto non corrisponde alle aspettative dei genitori, dei maestri, degli insegnanti; perché quella è la base, e senza quella base non si va da nessuna parte.