I beni della Germania in Italia sembrano al sicuro, dopo la sentenza della Corte costituzionale 159, depositata il 21 luglio scorso, sui risarcimenti per stragi e deportazioni nazifasciste. Si tratta di una lunga vicenda (vedi qui e qui) che negli ultimi vent’anni ha visto provvedimenti coraggiosi, a partire da una pronuncia della Cassazione, nel 2004 a sezioni unite (il caso Ferrini), proseguendo con un’altra, proprio della Corte costituzionale, decisa nel 2014, quando presidente e giudici erano tutti diversi da quelli attualmente in carica. Nel 2014, soprattutto, nella Corte si notava la presenza di Giuseppe Tesauro, che di quella sentenza fu presidente ed estensore, e che in seguito difese con energia il contenuto avanzatissimo dei suoi argomenti, anche in un convegno in Senato che ebbe molta partecipazione (vedi qui).
Il principio legale di fondo, conquistato a fatica e ora messo in crisi, è che i diritti delle persone prevalgono sulle ragioni delle cancellerie, e quindi che i crimini di guerra e contro l’umanità vanno risarciti, senza tenere conto dell’immunità degli Stati. L’immunità, secondo l’orientamento più moderno, esiste, certo, ma solo per le conseguenze di fatti meno gravi. Va detto che questo modo più giusto e umano di intendere le cose è stato sempre osteggiato dai governi italiani, praticamente di tutti gli orientamenti politici; al punto che l’esecutivo, già molti anni fa, ha preso ad attivare l’Avvocatura dello Stato in difesa della Germania; l’ha ricordato la stessa Avvocatura, in udienza alla Corte costituzionale, il 4 luglio scorso.
Perché si è arrivati all’attuale pronuncia? Nel 2022 il Tribunale di Roma ha sollevato davanti alla Consulta una questione di legittimità costituzionale, nell’ambito di un’esecuzione immobiliare che riguarda gli stabili della Scuola germanica, del Goethe Institut e di altre strutture, tutti proprietà dello Stato tedesco in territorio italiano, e dunque aggredibili dai creditori (vedi qui). Ricordiamo che i creditori sono anziani deportati, sopravvissuti alle stragi, oppure parenti delle vittime.
Adesso, diversamente dalla decisione firmata da Tesauro nel 2014, la Corte costituzionale ha seguito ragionamenti che preoccupano, non solo per l’esito delle vertenze pendenti su quei crediti, ma proprio in generale, a regime, per la definizione giuridica e concettuale del rapporto fra – da un lato – la persona e – dall’altro – il potere politico, militare, diplomatico.
Secondo la sentenza la normativa decisa di fretta nel 2022, con Draghi al governo e poco dopo la proposizione di un ricorso tedesco alla Corte internazionale di giustizia, non viola la Costituzione. Eppure si tratta di norme che in concreto sollevano Berlino dalla sua responsabilità per i risarcimenti: non è più possibile iniziare nuove cause civili né fare atti esecutivi.
Il perno legale di questa decisione è uno strumento internazionale, l’Accordo di Bonn del 2 giugno 1961. È un atto che, da tanti anni, viene invocato dalla Germania e dai suoi avvocati, e per loro il conforto tardivo della Consulta deve suonare come un successo insperato. Ma attenzione: da tanti anni, invece, i tribunali e la Cassazione escludono l’applicabilità di quell’Accordo, sulla base di una lettura approfondita: le norme contenute in quel testo si riferiscono ad altri debiti tedeschi, non a questi. La Corte costituzionale applica l’Accordo – da tanti anni, dunque, tutte le sentenze sarebbero sbagliate – e nel farlo offre la sua visione dell’epoca di quell’intesa: “Nuovo clima europeo ispirato a ideali di pace, concordia e comunanza di valori fondamentali”. In realtà, nel 1961, viene costruito il Muro di Berlino, i dittatori Franco e Salazar sono ancora al potere, la Francia è lacerata dalla questione algerina e dalle violenze dell’Oas (Organisation armée secrète).
In sostanza, per la Corte le decisioni italiane favorevoli alle vittime, a partire dal caso Ferrini, avrebbero turbato le relazioni internazionali, proprio perché esisterebbe una “clausola liberatoria” in favore della Germania. Una clausola che né i tribunali né la Cassazione hanno riconosciuto.
Con queste premesse, la normativa nel decreto legge dell’anno scorso viene salvata, chiamandola “norma virtuosa, anche se onerosa”. Di oneroso c’è poco: per le vittime solo sessanta milioni di euro (italiani, non tedeschi né europei); e non è chiaro come la Consulta possa vedere in questo “un soddisfacimento integrale”.
E la virtù? Eccola: la Corte prende la tutela delle persone, la mette accanto alle relazioni internazionali, e conclude che col decreto legge è stato fatto un “bilanciamento”. È la rivincita della ragion di Stato. Eppure, i difensori delle vittime avevano ricordato che, anche in Ucraina, ci sono state condanne economiche della Russia: evidentemente, per fatti gravi, gli Stati possono essere condannati. L’osservazione è stata inutile. Dalle nostre parti ha molto credito quasi tutto ciò che viene da Kiev, ma per le sentenze sembra diverso.
In questo quadro, cosa resta alle vittime e ai familiari? La possibilità di fare domanda a carico del fondo-ristoro, prendendo faticosamente, in futuro, qualche soldo italiano. Al momento, il denaro stanziato è poco, e sono anche oscuri i criteri di erogazione.
Di certo, adesso, il termine per fare le cause è scaduto; è l’effetto di una decadenza creata su misura, perché in realtà i diritti a questi risarcimenti sono imprescrittibili. Nulla da eccepire – direbbe un’interpretazione formalistica – perché il decreto-legge non prevede una prescrizione ma, appunto, solo una decadenza. Fare e non dire; aggirare, rinominare. Ricorda niente? Ma sì: l’improcedibilità o prescrizione processuale, detta anche sistema “dei due orologi”, voluta da Cartabia in ambito penale. È la stessa ministra della Giustizia che ha firmato il decreto legge salvato dalla Corte.
La decisione è un brutto segnale su tutti i crimini del potere, nell’Est europeo, in Africa, in Medio Oriente. Aperta la falla, i bilanciamenti potrebbero persino ridimensionare altri diritti fondamentali.