Proteste inutili? A quanto pare sì se il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è riuscito ad approvare la famigerata legge frutto del lavoro del ministro della Giustizia, Yariv Levin, che di fatto rende quasi inutile l’esistenza di una Corte suprema, che non potrà più opporsi alle decisioni del governo. Si tratta per l’esattezza di un emendamento sulla clausola di ragionevolezza (che spiegheremo più avanti). Di questo scontro tra governo e opposizione si parla da mesi. Le piazze dello Stato ebraico si riempiono da ventinove settimane di esponenti dell’opposizione, come l’ex premier Yair Lapid, rappresentante dell’area di centro, di militanti di ciò che resta della sinistra israeliana – laburisti e Meretz –, ma principalmente di centinaia di israeliani e israeliane che, al pari di quello che succerebbe in Europa, non tollerano che la politica diventi un rifugio per il premier più corrotto della storia di Israele, da molti considerato il mandante morale dell’omicidio del premier Yitzhak Rabin, avvenuto il 4 novembre del 1995, nel bel mezzo delle trattative per trasformare in realtà il contenuto degli accordi di pace con i palestinesi firmati nel 1993.
La decisione di martedì 25 luglio ha di nuovo scatenato la rabbia dei dissidenti, con arresti e cariche della polizia. Come abbiamo già scritto (vedi qui), la riforma rappresenta l’anima della politica “riformista” del governo di estrema destra, che non ha accolto in nessuno modo l’appello del presidente israeliano, Isaac Herzog, per arrivare a una mediazione, perché a “Bibi” – come viene chiamato il premier – la legge serve come il pane, visti i numerosi procedimenti giudiziari, al termine dei quali potrebbero aprirsi le porte del carcere, o quanto meno esserci la sua definitiva uscita dalla politica.
Venendo alle cifre, va considerato che il 52% degli elettori della coalizione di governo vorrebbe che si andasse avanti con la riforma in atto, mentre il 34% sarebbe per la redazione di un nuovo testo. Percentuale che arriva fino all’84% tra gli elettori dell’opposizione. Di fatto, la maggioranza degli israeliani e delle israeliane non concorda con le riforme governative, considerate pericolose. La legge è stata approvata con 64 voti a favore e nessuno contrario, perché l’opposizione aveva deciso di abbandonare l’aula.
Naturalmente, i sostenitori della riforma e gli oppositori hanno visioni diverse su quanto sta avvenendo. Per i primi, come da decenni sta succedendo in Italia, si tratta di mettere un freno all’operato dei giudici divenuti, secondo loro, troppo potenti rispetto al potere dell’esecutivo e della politica in generale. Al contrario, come denuncia l’Israel Democracy Institute (Idi), a correre dei rischi sono i giudici, che avrebbero le mani legate qualora volessero operare nei confronti di politici accusati di determinati reati. Finora era il concetto di “ragionevolezza” a regolare il tutto. Ovvero la Corte suprema valutava se fosse appunto ragionevole o meno far ricoprire quel certo ruolo a una persona considerata inadeguata per ragioni diverse, come essere sottoposto a una inchiesta giudiziaria o a causa di un conflitto di interesse – tanto per citare due situazioni assolutamente verosimili.
L’esempio più calzante ha riguardato nel gennaio scorso Aryeh Deri, leader del partito ultraortodosso Shas, che doveva ricoprire il ruolo di ministro della Salute e dell’Interno. Ma la Corte ha ritenuto “irragionevole” assegnare una carica del genere a un uomo già condannato per evasione fiscale, corruzione, tangenti e frode. In una dichiarazione rilasciata all’Ispi (Istituto studi politiche internazionali), Amir Fuchs dell’Idi sosteneva che “la norma stabiliva un bilanciamento fra gli interessi pubblici e quelli politici: una decisione veniva giudicata irragionevole se si focalizzava in maniera sproporzionata sull’interesse politico, senza prendere in sufficiente considerazione quello pubblico”. A questo punto, dietro l’angolo si intravede un gran caos istituzionale, perché sarà la stessa Corte, il cui ruolo per il momento non è cambiato, a valutare la legalità di un provvedimento che limita i suoi stessi poteri.
La riforma non dispiace certo ai partiti di governo di estrema destra, che non vedono l’ora di “fare di più nei nostri uffici”, come ha detto il ministro della Sicurezza nazionale, Ben-Gvir, il cui partito, Potere ebraico, era da sempre ai margini della politica israeliana. Uno dei peggiori prodotti nella storia della politica dello Stato ebraico. A dimostrazione che i rapporti, all’interno dell’esecutivo, non sono affatto idilliaci, Ben-Gvir aveva minacciato di ritirare il proprio sostegno alla legge di Bilancio, se non fossero stati stanziati a loro favore 3,4 miliardi di euro all’anno, oltre a una disposizione di 62 milioni di euro da stanziare il prossimo anno per rimpinguare le casse del ministero dello Sviluppo del Negev e della Galilea. Una mole di denaro importante, che ha messo in crisi le fragili casse dello Stato. Insomma, tanto denaro nelle mani di gente pericolosa per la già problematica democrazia israeliana non può che far paura.
Al riguardo, sempre l’Ispi, riporta le preoccupazioni di due intellettuali israeliani: Mira Lapidot, una curatrice museale di Tel Aviv, in una intervista al “New York Times” non nasconde le sue preoccupazioni: “Ho davvero la sensazione che ci stiano saccheggiando, come se il Paese fosse alla loro mercé e ogni cosa è lì per essere presa”. Dal canto suo, Yedidia Stern, un professore di legge coinvolto nel tentativo di raggiungere un compromesso con l’opposizione sulla legge appena approvata, sostiene che il conflitto attorno alla riforma della giustizia sia “il simbolo di una manifestazione o di una enorme mancanza di fiducia fra le diverse parti della società israeliana”. Ancora Stern ha descritto il proprio Paese al “New York Times” come “una coabitazione di quattro componenti maggioritarie: i nazionalisti religiosi, gli ebrei ultraortodossi, gli ebrei secolari e gli arabi. Con l’attuale esecutivo, le prime due componenti sono al potere, mentre gli israeliani liberali e secolari hanno la percezione che l’equilibrio che avevamo stia venendo meno”.
Questo scontro, tutto interno alla democrazia israeliana, non sembra, tranne qualche rara eccezione, preoccuparsi della gravissima situazione (vedi qui) che la popolazione palestinese sta vivendo in Cisgiordania, peggiorata dall’esecutivo Netanyahu, che ha dato ancora più poteri ai coloni. Secondo Giorgio Gomel, economista, già direttore di Studi e relazioni internazionali della Banca d’Italia, e autore presso la testata online “Affari internazionali”, “le elezioni del novembre scorso e il formarsi di una coalizione al potere fra il partito di Netanyahu, i partiti religiosi e l’estrema destra sciovinista, limitano esplicitamente ai soli ebrei il diritto di autodeterminazione sulla terra compresa tra il fiume Giordano e il Mediterraneo”. “Sarà estesa – aggiunge Gomel – la legge civile israeliana alla Cisgiordania, il che equivale all’annessione de jure o de facto della stessa, sotto l’autorità del ministro delle Finanze Smotrich, in materia di allocazione della terra, di risorse naturali, di infrastrutture”.
L’inesistenza dei palestinesi, concetto già presente nella definizione di Israele come “Stato degli ebrei” tipico dell’ideologia sionista, si è così ulteriormente rafforzata con l’arrivo degli estremisti nell’esecutivo israeliano. Non sarebbe male, dunque, se le centinaia di migliaia di persone mobilitate contro il governo gettassero uno sguardo più attento a quello che succede nella West Bank, scoprendo che questa volta c’è la possibilità di battersi con i palestinesi contro un comune nemico.