Perché in Spagna è stato possibile fermare le destre e in Italia no? La risposta va trovata anzitutto nei numeri della partecipazione al voto: in Spagna la tendenza astensionistica ha subito una battuta di arresto, con un recupero di circa il 5% rispetto alle elezioni del 2019, arrivando a una percentuale di votanti del 70%. È la prova che, se l’elettorato di sinistra viene motivato dai suoi partiti e gruppi di riferimento mediante una campagna efficace, con una presentazione alle elezioni che abbia senso, e last but not least potendo esibire dei risultati tangibili circa la propria azione di governo, l’elettorato risponde, si mobilita. Nulla di tutto questo in Italia nel 2022: nessuno avrebbe mai potuto portare il governo Draghi come un esempio di chissà quale politica riformatrice, e invece fu sbandierata una fantomatica “agenda Draghi”, che perfino l’interessato dichiarò inesistente. Lo schieramento che avrebbe dovuto contrastare Meloni e i suoi era rassegnato e perdente fin dall’inizio, non fu fatto alcun tentativo di unità tra il Pd e i 5 Stelle (che tuttavia avevano governato insieme per un tempo non breve, nel pieno della pandemia), e ciò con un sistema elettorale che impone le alleanze. Si lasciò così crescere la demotivazione, quindi l’astensionismo, al suo livello più alto in Italia, pur in presenza della minaccia, che incombe ora realmente sul Paese, di finire come la Polonia o l’Ungheria.
Ci sono poi gli aspetti europei della vicenda spagnola. In Italia è già da lungo tempo assodato – è la formula politica del berlusconismo – che una forza che fa parte del Partito popolare europeo sia alleata stabilmente con l’estrema destra, articolata in due formazioni, la Lega salviniana, che nel parlamento europeo fa capo al gruppo di Marine Le Pen (Identità e democrazia), e quella di Giorgia Meloni (Conservatori e riformisti europei: da notare, di passaggio, che finanche i conservatori si autodefiniscono “riformisti” – vedi qui –, a riprova del fatto che la parola ha perso completamente il suo significato). Bene, in Spagna fino a ieri non era affatto così: da poco i popolari spagnoli si stanno alleando nei governi locali, comunque da posizioni di forza, con l’estrema destra di Vox, venuta fuori soltanto negli ultimi anni. È anche una novità che il Partito popolare europeo, con il suo presidente Manfred Weber (non a caso un cristiano-sociale bavarese), stia prendendo in considerazione di coalizzarsi con la destra ultraconservatrice. Il punto cruciale è quello dell’antiecologismo spinto fino al negazionismo climatico: c’è un enorme grumo di interessi, comprendente gli allevamenti intensivi e l’agroindustria, che di una transizione ecologica di fatto non vuol sentir parlare.
Ora, l’elettorato in Spagna è stato investito in anticipo di una partita che si giocherà nell’essenziale l’anno prossimo. Nel 2024 il “no pasarán” dovrà essere lo slogan delle forze progressiste per fermare l’ondata nera e rendere impossibile, numeri di seggi nel parlamento europeo alla mano, la prospettiva di un’alleanza tra popolari ed estrema destra. È anche la consapevolezza di questo “laboratorio politico”, dell’importanza di un voto che andava al di là del loro stesso Paese, che ha motivato gli elettori e le elettrici a Madrid come a Barcellona.
Non per nulla diciamo Barcellona. In Catalogna il Psoe di Sánchez, che dal governo ha fatto grandi aperture ai catalani (vedi qui e qui i pezzi che il nostro Aldo Garzia aveva dedicato alla questione), ha avuto un risultato superiore alla media nazionale. È la prova, una volta di più, che la soluzione sta nel negoziato, fino ad arrivare magari a una sorta di confederazione concordata, non certo nell’indipendentismo secessionista. E i catalani sanno che si può trattare con un governo di sinistra, non con uno di destra.
Ora, un intralcio sembra essere arrivato dalla Corte suprema, che peraltro già a suo tempo aveva dato parere negativo sull’indulto concesso da Sánchez ad alcuni separatisti in carcere. Carles Puigdemont, il leader in esilio del partito catalano nazionalista di destra, è sotto la minaccia di un mandato di arresto proprio quando si trova, con i suoi sette deputati alle Cortes, a essere l’ago della bilancia, con una semplice astensione, di una possibile riedizione del governo di sinistra. Come interpretare questa circostanza? Nella trattativa che si aprirà – considerando che la richiesta di un referendum popolare sulla questione catalana è inaccettabile da parte di Sánchez – potrebbe essere oggetto di trattativa un ulteriore provvedimento che consenta a Puigdemont di rientrare in Spagna da uomo libero? Staremo a vedere. Ma fin da ora si può dire che, ammesso che si debba ritornare alle urne entro l’anno, in mancanza di un accordo di governo, sarà ancora la Catalogna il centro nevralgico della faccenda: gli elettori catalani, ormai stanchi di un indipendentismo privo di sbocchi, potrebbero incoraggiare ulteriormente il Psoe, dandogli quella manciata di seggi in più che servirebbe per costituire una maggioranza.
Nell’analisi di tutta questa complessa partita, va considerato che un ulteriore risvolto europeo (tra l’altro, la Spagna ha in questo momento la presidenza di turno dell’Unione) è dato proprio dalla questione delle autonomie locali, che in futuro potranno essere sottratte ai nazionalismi attivando un processo, al tempo stesso, di decentramento nei singoli Stati e di costruzione federalistica. I piccoli particolarismi, così come i grandi, sono da superare nella prospettiva degli Stati Uniti d’Europa: un’idea oggi apparentemente lontana dalla realtà, ma che proprio i nazionalismi, a causa della loro pericolosa grettezza, potrebbero far venire in primo piano come unica soluzione ragionevole.
Infine non va trascurata, nel giudizio sulle elezioni spagnole, la dimostrazione di grande affidabilità data sia da Pedro Sánchez (sulla cui biografia politica, vedi qui Aldo Garzia) sia dalla ministra del Lavoro, Yolanda Díaz (vedi ancora qui), che in breve tempo è riuscita a superare la crisi in cui era finita la sinistra radicale mettendo su un raggruppamento, Sumar, arrivato oltre il 13%. Qualcosa di impensabile in Italia dove una moltitudine di sigle, da una ventina d’anni, non riescono a far altro se non la guerra tra loro, per ritrovarsi poi in vuoti cartelli elettorali, con una insipienza politica che è il segno della propria autodistruttività.