A volte ci vuole poco per essere buoni profeti, e lo si diviene quasi controvoglia. Chiudevamo l’ultimo articolo (vedi qui) sulle ordinanze anti-alcol introdotte dal sindaco di Genova, Marco Bucci, con l’attesa di ulteriori ordinanze, ed eccole a stretto giro di posta. Il nuovo testo fatto circolare vede, da una parte, un posticipo dell’entrata in vigore dei divieti di consumo di alcolici fuori da bar e dehors – vendita per asporto non più dalle 16 alle 8, ma dalle 22 alle 6 – allineandosi alla normativa prevalente nel Paese, ma, dall’altra, stringe ulteriormente le maglie su alcune zone critiche: centro storico, spiaggia di Vernazzola, spiaggia di Voltri e laghetti di San Carlo di Cese, giardini di Quinto.
Vale la pena nominarle, queste zone, dato che con precisione certosina la scure delle restrizioni si abbatte in particolare sulle periferie, sia su quelle geograficamente individuate sia sulle “periferie sociali” interne; e colpisce anche luoghi teatro di eventi conflittuali, come i giardini di Quinto, in cui, l’estate scorsa, c’erano state violenze e scontri tra gruppi di giovani migranti e autoctoni. Si moltiplicano così le zone “rosse”, equiparate ad aree dove le limitazioni più forti sono già realtà (Sampierdarena, Rivarolo, Sottoripa, Sestri Ponente). Qui i divieti inizieranno alle 12 e termineranno alle 8 del giorno seguente.
Sarà dunque possibile bersi una birretta in strada solo nelle prime ore del mattino. In pratica, il proibizionismo mirato introdotto dal provvedimento colpisce le aree della città maggiormente in difficoltà, include specifici spazi a frequentazione giovanile “etnica”, e in particolare si accanisce su luoghi a frequentazione “dubbia” e spazi pubblici frequentati da minoranze. Le norme introdotte non riguardano però solo il consumo di alcolici, ma anche le posture fisiche e il “decoro urbano”. In buona parte del centro storico, non è più possibile sedersi sui gradini delle chiese. Vengono risparmiate le zone turistiche, non a caso è ancora possibile sostare sui gradini del Duomo in San Lorenzo, mentre non è possibile farlo a pochi metri di distanza, nelle piazzette interne adiacenti. È evidente che il provvedimento implica una gerarchizzazione degli spazi della città, che vengono suddivisi in diverse categorie, cui corrispondono legislazioni e normative differenti.
Ma c’è di più: non si sfugge all’impressione che ci sia una ratio in questo procedere apparentemente strampalato e occasionale. L’idea non apertamente palesata è che ci sia ormai una città divisa, da amministrare in maniera diversificata. Mentre in determinate zone bisogna procedere con un “abbellimento” più o meno scenografico, e a volte di dubbio gusto, al tempo stesso bisogna sanificare, “sbiancare” le parti di città che servono a un goffo e mai chiaramente elaborato progetto turistico, alleggerirle da presenze ritenute fastidiose o scomode. Si tratta dunque di tracciare confini, e di individuare politiche di regolazione e di controllo dei territori, creando una città a diverse velocità, che certo esiste già nei fatti, ma in questo modo viene circoscritta anche dalla normativa. Una gestione dell’urbano che prevede inclusione differenziata e subalterna per i migranti, cittadinanze di serie B o C per chi vive nelle periferie. E che ognuno stia al suo posto!
Come ha mostrato in un bel libro di qualche anno fa Wolf Bukowski (La buona educazione degli oppressi, Alegre, 2019), il concetto borghese di decoro si sviluppa secondo due linee: da un lato, con provvedimenti che sembrano costituire una sorta di diritto speciale del povero con misure ad hoc, come la limitazione della libertà di movimento, per esempio con il Daspo urbano, ma, dall’altro, rispecchia una visione della città, in cui ogni centimetro di spazio urbano potenzialmente interessante deve essere messo a profitto, deve essere valorizzato.
Nella logica del decoro come fonte di profitto, come messa a rendita, la città stessa gioca dunque un ruolo cruciale: si affossano spazi di socialità con ordinanze antidegrado che sanzionano il consumo di alcolici fuori dai locali, si sgomberano gli spazi occupati e si investe in modo massiccio in videosorveglianza; al tempo stesso si mette a profitto ogni angolo della città con AirBnB, con studentati per élite, e si cerca di tamponare una ormai esplosiva questione abitativa con provvedimenti transitori, senza mai provvedere a interventi di riforma radicale. In un simile quadro si ha una vera e propria riduzione del diritto alla città per determinati gruppi e categorie, nel tentativo di limitarne preventivamente la potenziale conflittualità. Le diverse categorie di cittadini hanno, in questo modo, un accesso differenziale alla città: se si volesse fare una ironica e triste classifica, a partire dai maggiormente esclusi, potremmo individuare al livello più basso della scala i migranti poveri, seguiti dagli autoctoni poveri, mentre a un gradino superiore troviamo gli abbienti “consumatori cittadini”, e in cima alla nuova gerarchia in formazione il “consumatore non cittadino”, ossia il turista, per lo più ricco e depoliticizzato, il soggetto al quale la città deve mostrarsi come vetrina linda e immacolata. Un universo urbano compartimentato, in cui si riducono gli spazi pubblici e la socialità è tutta demandata al mercato, al mondo predatorio dei bar costosi e dei dehors.
L’estetica diviene così uno dei momenti importanti di protezione della rendita e dei valori immobiliari. Ed è un’estetica molto particolare, che mira unicamente allo scenario, alla cartolina, che sfigura le città, le plastifica, le imbalsama privandole di vita. Non è certo una tendenza solo genovese: vicende come quelle di Venezia e Firenze lo mostrano molto bene, salvo poi ricredersi tardivamente, come nel caso che abbiamo documentato in queste pagine a proposito del sindaco di Firenze (vedi qui).
A Genova, in ogni caso, il processo è ancora ai suoi stadi embrionali, e non è detto che prenderà la forma che la giunta attuale vorrebbe confusamente attribuirgli, anche perché pensare di risolvere questioni sociali spinose, senza un intervento istituzionale mirato e unicamente con misure di ordine pubblico, appare insensato. Poi che senso ha parlare di riqualificazione delle periferie, quando tutto quel che si riesce a fare per migliorare la vivibilità dei quartieri è inasprire il controllo? In una città in cui predominano i bassi salari e il lavoro giovanile povero, in cui la malavita e lo spaccio sono presenze diffuse in più di un quartiere, in cui nelle periferie abbandonate a se stesse cova un evidente malessere, la nuova ordinanza ha tutto il sapore di una beffa.