Guardando ai risultati delle elezioni spagnole (vedi qui il nostro precedente articolo) le prime parole che ci vengono in mente sono: scampato pericolo. Perché se è vero che il Partito popolare di Alberto Núñez Feijóo ha ottenuto il 33,05% dei voti e 136 seggi, rispetto agli 89 del 2019 – ma allora c’erano ancora i centristi di Ciudadanos –, diventando così il primo partito, contro i 122 del Partito socialista operaio spagnolo (Psoe), due in più del 2019, che equivalgono al 31,7% dei consensi, la notizia è il crollo dei neofranchisti di Vox (capeggiati dal basco Santiago Abascal) che perdono 19 seggi, passando da 52 a 33, con il 12,4% dei consensi: uno stop all’ondata di estrema destra che sta infangando il continente. Un esito che non permette ai popolari di conquistare la maggioranza assoluta di 176 deputati per insediarsi alla Moncloa, il palazzo del governo. La tenuta complessiva dei socialisti è stata anche favorita dal travaso di voti dalle formazioni indipendentiste. Come a Barcellona e in tutta la Catalogna, dove comunque sia Esquerra republicana sia i separatisti di centrodestra di Junts per Catalunya hanno detto “no” all’arrivo di una destra che minacciava di esautorare le autonomie locali, con conseguenze assolutamente imprevedibili.
Ottimo il risultato di Sumar (“Aggregare”), la nuova formazione della sinistra radicale, fondata dalla ministra del Lavoro, Yolanda Díaz, che ha ottenuto 31 seggi (Podemos ne aveva 35); la sua politica del lavoro ha ottenuto risultati importanti nella lotta alla precarietà e alla disoccupazione. Lo sforzo unitario di Díaz ha consentito di colmare il vuoto che stava lasciando Podemos, che, dopo quasi dieci anni dalla sua fondazione, non era più quella forza attrattiva nata sull’onda del movimento degli indignados del 2011.
La Spagna ha ora di fronte tre possibili scenari: com’è ovvio, il re affiderà anzitutto a Feijóo il compito di formare un governo ovviamente con Vox. Ma visti i seggi che le due forze hanno conquistato, non si capisce come questo tentativo potrebbe andare in porto. Senza contare la scarsa simpatia che il leader dei popolari, rappresentante dell’anima più centrista del partito, ha nei confronti del leader neofranchista, a differenza della presidente della Comunità di Madrid, Isabel Díaz Ayuso. Il candidato popolare alla premiership spagnola, essendo anche presidente della Galizia, non ha mai amato il centralismo di Vox, e tanto meno le sue posizioni sia sul cambiamento climatico sia sulla violenza di genere.
L’altro problema per Feijóo, non certo marginale, è quello relativo alle alleanze europee. Il Pp spagnolo non è certo vicino a quegli ultraconservatori all’interno dei quali troviamo Fratelli d’Italia, preferendo una storica relazione con la Cdu tedesca piuttosto che con Marine Le Pen o Orbán. Al riguardo, e in previsione delle elezioni europee del 2024, il tentativo di scardinare il patto di ferro tra popolari e socialisti in Europa, spostando a destra l’asse del parlamento europeo, subisce un duro colpo dal risultato uscito dal voto spagnolo. E tuttavia la strada dell’alleanza tra popolari e Vox appare in prospettiva comunque obbligata, se la destra vuole arrivare al governo.
Feijóo – la cui foto di vent’anni fa che lo ritraeva con un narcotrafficante non lo ha certo aiutato elettoralmente – chiede al Psoe un patto di neutralità. “Dopo sette anni, il Pp torna a vincere”, ha detto nella notte dal palco montato in calle Genova a Madrid, sede nazionale del partito, davanti a una piccola folla che sventolava la bandiera spagnola. “Lavorerò per evitare lo stallo. Il nostro obbligo ora è che non si apra un periodo di incertezza in Spagna. È mio dovere da subito aprire il dialogo e cercare di governare il nostro Paese in conformità con i risultati elettorali”.
Dal canto suo, il premier uscente, Pedro Sánchez, non ha usato mezzi termini su un possibile dialogo e un sostegno ai popolari: “Il blocco involuzionista ha fallito. Il machismo e l’arretramento delle libertà sono stati sconfitti, noi siamo molti di più”, ha affermato il leader socialista, mettendo in chiaro che non ci sono margini di dialogo con il Pp. In questo contesto così complesso, Sánchez sembra avere più chance di realizzare un esecutivo, qualora riuscisse a ricostruire una maggioranza con l’appoggio delle forze indipendentiste.
Junts vorrebbe però un referendum per l’indipendenza, che nessun leader politico potrebbe concedergli. Malgrado la presenza, all’interno del Psoe, di una componente più moderata e più indulgente nei confronti dei popolari, capeggiata dal vecchio Felipe González, l’ipotesi di una grande coalizione alla tedesca, che tanto piacerebbe all’Europa, è da escludere: non solo per la differenza abissale tra i programmi politici dei due principali partiti, ma anche perché non rientra affatto nella tradizione politica spagnola. Non resterebbe così che un nuovo appuntamento elettorale, con tutta probabilità prima della fine dell’anno. Per la Spagna tornare al voto, dopo pochi mesi, non sarebbe una novità – è già successo nel 2019 –, e l’impossibilità di formare un governo non si traduce, come in Italia, nell’inevitabile corsa al tecnico, come nel 2021 con Draghi, e con il conseguente vulnus alla democrazia.
Dopo il risultato negativo delle elezioni amministrative dello scorso maggio, va riconosciuto il grande coraggio di Sánchez nel rimettersi immediatamente in gioco, forte anche dell’impegno di Yolanda Díaz, che ha fatto rinascere una sinistra in via di estinzione. Del resto, anche se i giochi sono tutti aperti, pensare che possa andare a casa un esecutivo che ha riportato risultati importanti, soprattutto sui temi cruciali della vita degli spagnoli e delle spagnole, sarebbe difficile da capire. Dal 2008 i disoccupati in Spagna sono due milioni e 862.260, oltre 48mila in meno solo da febbraio, su 47 milioni di cittadini, come riportava recentemente “Il Fatto”, citando l’agenzia di stampa “Efe” e il quotidiano “El País”; l’86% ha un contratto a tempo indeterminato, con un calo dei contratti temporanei, passati dal 30% al 14% del totale. Un intervento riformatore commentato positivamente anche dal “Financial Times”, che ne ha sottolineato il successo, sia pure maturato in una fase positiva dell’economia spagnola. È ancora troppo presto per valutare cosa potrebbe succedere in una fase recessiva. Ora tutti gli scenari sono aperti: dalla prossima sfida la sinistra spagnola potrebbe uscire sconfitta, sebbene le premesse sembrino essere altre. Ma Sánchez e Díaz hanno dimostrato che la destra si può battere solo facendo la sinistra – e mostrando una capacità di iniziativa che, qui in Italia, è merce rara.
Postscriptum – Mentre mezzo mondo discuteva sui possibili scenari che il voto spagnolo determina, ecco arrivare la sconcertante decisione della Corte suprema. Dipendente dall’esecutivo, essa ha chiesto al giudice Llarena di spiccare un mandato d’arresto europeo contro l’ex presidente catalano in esilio Carles Puigdemont e l’eurodeputato Toni Comin. Proprio coloro che con i loro sette seggi potrebbero, in teoria, consentire al premier Pedro Sánchez di restare alla Moncloa. Rispetto alla formazione di un nuovo esecutivo di sinistra, la ratio di questa operazione resta di difficile interpretazione. Se la Corte dipende dal governo non si capisce questo intervento a gamba tesa contro la possibile formazione di un esecutivo di sinistra. Al riguardo, però, dobbiamo registrare, come peraltro abbiamo già fatto, che un’intesa, tra gli indipendentisti catalani di Junts e Sánchez, appare impossibile viste le richieste dei primi, in primo luogo un referendum indipendentista. Vada come vada, anche questo nuovo elemento sembra aprire la strada a elezioni anticipate.