Il cordoglio di colleghi e cittadini per la scomparsa di Andrea Purgatori – un giornalista che ha ridato smalto al mestiere, in un tempo in cui la nostra categoria non gode affatto di buona stampa – ci porta non troppo lontano dalla vertenza che sta paralizzando Hollywood. Purgatori, non a caso, aveva sostituito da tempo il linguaggio giornalistico tradizionale, nella sua prestigiosa postazione del “Corriere”, con la produzione di sceneggiature e di programmi audiovisivi di inchiesta. Una scelta che lo ha portato a combinarsi con figure professionali come quelle del ciclo audiovisivo. Per questo, quanto oggi sta paralizzando questo settore ci parla anche di lui.
È dal 1960 che gli attori americani sono sul piede di guerra sindacale. A quel tempo, il leader della categoria era un certo Ronald Reagan. Oggi, da quel versante, arriva ciò che appare come il conflitto moderno più radicale e contraddittorio per il capitalismo digitale. Da mesi gli sceneggiatori di Hollywood sono in sciopero contro i proprietari delle grandi piattaforme della tv in streaming. Ora all’agitazione si sono uniti gli attori, proprio tutti, dai più noti ai meno noti. Il mercato audiovisivo, cinema e televisione, è fermo. Persino il prestigioso Festival internazionale di Giffuni, dove ogni anno arrivano le star internazionali per promuovere i loro film, quest’anno andrà deserto. Nessuno si muove.
Tecnicamente, la vertenza riguarda l’adeguamento delle modalità per riconoscere i diritti di autore a sceneggiatori e attori sulle opere trasmesse. Ora, siccome gran parte del fatturato di un film o di un programma proviene dalle piattaforme streaming (tipo Netflix o Amazon, o ancora Apple e Disney, che lasciano permanentemente i titoli disponibili per i propri milioni di abbonati), il vecchio sistema della messa in onda non funziona più.
In realtà, il tema è ben più rilevante e non solo per il mondo dello show business. Sceneggiatori e attori puntano al bersaglio grosso, ossia a mettere le mani sulla vera origine del dominio che esercitano i proprietari dei grandi gruppi di tv in streaming, che sono i dati individuali di decine di milioni di singoli utenti. È la materia prima che ha trasformato radicalmente il sistema delle nostre relazioni sociali. L’irruzione poi di forme di intelligenza artificiale generativa, in grado cioè di ingerire ed elaborare, dettagliatamente, queste informazioni, ha mutato il carattere e la natura di questo potere. Come scriveva Marx nel Capitale, “mutamenti puramente quantitativi si risolvono, a un certo punto, in differenze qualitative”. Siamo da tempo oltre questo confine: la struttura e modalità dei nostri rapporti sociali, dalla produzione ai sentimenti, sono classificati e ridisegnati dal potere di sistemi di calcolo che si basano sulla conoscenza genetica dei nostri meccanismi cognitivi ed emotivi. In sostanza, da almeno vent’anni, viviamo in un ambiente in cui i nostri comportamenti sono monitorati, tracciati, documentati, elaborati e condizionati da pochi soggetti che vantano un’esclusiva conoscenza di quel grafo sociale che ognuno di noi disegna quotidianamente nei server delle piattaforme digitali. Il ciclo audiovisivo rende esplicito ed evidente l’esercizio di questo monopolio, che va a cozzare con gli interessi di categorie che si credevano incluse nell’inner circle del privilegio e invece oggi si scoprono, potremmo dire, nel percorso di una quasi proletarizzazione.
Da qui il conflitto, che si concentra proprio sulla matrice di quel “capitalismo della sorveglianza” che ha riorganizzato l’intero equilibro globale, spostando moltitudini di figure professionali e sociali sul terreno di una contrapposizione passiva e reazionaria nei confronti delle istituzioni. L’esempio più eclatante di questo processo di interferenza permanente – di guerra ibrida, direbbe il generale Valery Gerasimov, capo di stato maggiore delle forze russe – rimane Cambridge Analytica; ma ormai l’aneddotica è esplosa, attraverso la diffusione della cybersecurity come categoria geopolitica e commerciale.
I dati divengono un vero arsenale che minaccia l’assetto della democrazia, rendendo insopportabilmente asimmetrica ogni relazione basata, appunto, sulla mediazione di un sistema digitale. Come scrive Lev Manovich nel suo saggio sul tema, Cultural Analytics (Cortina editore), “l’approccio ai processi e agli artefatti culturali come dati può portarci a porre quei tipi di domande sulla cultura che le persone che oggi ne scrivono, la curano e la gestiscono, non si pongono, perché tali domande andrebbero contro la concezione accettata della cultura, della creatività, dell’estetica e del gusto nelle scienze umane nei media popolari o nel mondo dell’arte”.
Esattamente è questo il motivo per cui la vertenza di Hollywood apre uno squarcio inedito nella pesante coltre del senso comune imposto dai monopolisti digitali. Una materia strategica non solo per il mondo dello spettacolo, ma per l’intero sistema democratico esposto a interferenze e manipolazioni sulla base di questi dati predittivi.
Non dovrebbe sorprenderci molto che, nell’economia della conoscenza e della comunicazione, lo scontro sociale più rilevante vada in scena proprio nel mondo dell’immaginazione. Semmai, la sinistra dovrebbe ricavare da questa lezione materia per una profonda riflessione sulla nuova geografia sociale e sulla sua capacità di rappresentare e intervenire in queste nuove forme di lotta di classe. Infatti, la rivendicazione di Hollywood non ha solo un carattere specifico per il dorato mondo del jet set, ma investe l’intero sistema delle relazioni civili. A cominciare per esempio dal sistema dell’informazione.
I giornalisti sono una parte sostanziale di questa partita. Sia perché – lo ha dimostrato Purgatori – il loro lavoro è strettamente connesso con generi quali la docu-fiction o gli approfondimenti o i film verità, le cui sceneggiature sono vere e proprie inchieste, sia perché, nel processo di digitalizzazione delle redazioni, che sempre più vengono automatizzate grazie ai dati degli utenti letti e rielaborati dall’intelligenza artificiale, controllare o almeno condividere questa risorsa aprirebbe nuovi spazi per un ruolo da protagonista del giornalista nella riorganizzazione della macchina giornale, e per una integrazione anche dei singoli percorsi professionali dei redattori.
I francofortesi brinderebbero oggi dinanzi a questa evidenza; e si potrebbe rilanciare la famosa citazione di Horkheimer e Adorno secondo cui “la civiltà attuale conferisce a tutti i suoi prodotti un’aura di somiglianza” (Dialettica dell’illuminismo, Einaudi). Oggi quest’aura ha una ragione materiale, e comincia ad avere anche una controparte non frivola e vaga, che pone il tema della proprietà e dunque della legittimità di questo capitalismo.