Il cordoglio per la scomparsa di monsignor Bettazzi ci parla di un’inconsolabile sinistra che vede ormai il meglio della sua storia alle spalle. Il centenario vescovo storico di Ivrea, ultimo testimone del Concilio Vaticano II, noto per la sua relazione epistolare con Enrico Berlinguer a metà degli anni Settanta, è indissolubilmente legato alla fase più progressiva della sinistra, in particolare del Pci, in cui ceti e figure sociali, anche culturalmente distanti da un’idea di socialismo, per quanto di marca europea, si spostavano sotto le bandiere con la falce e il martello, rendendo credibile una svolta politica radicale.
Stiamo rievocando l’irresistibile avanzata che, dopo le grandi battaglie sociali, nel biennio 1968-69, vide avanzare una domanda di liberazione nel campo dei diritti civili con il divorzio, e poi con l’aborto e la chiusura dei manicomi. In mezzo, un domino che vedeva, una dopo l’altra, passare a sinistra città e regioni, in una geografia politica in cui il tessuto industriale più avanzato, nel Centro-nord, coincideva con un voto al Partito comunista. Siamo in quel passaggio, diciamo tra il 1974 e il 1977, in cui si parlò apertamente di un governo spostato a sinistra. Un fremito che però sfiorì con la stessa velocità con cui si diffuse. La discussione che ancora appassiona gli storici di una certa età, su come il progetto del compromesso storico abbia facilitato l’espansione della sinistra, e poi reso inevitabile il suo declino, non muta il rammarico di una straordinaria occasione mancata.
Soprattutto colpisce, tornando con la mente a quei mesi, la potenza di un’egemonia (culturale e valoriale), che penetrava in ambiti quali le professioni tradizionalmente più corporative: magistrati, medici, giornalisti, o ambienti più timorosi, come la finanza, e soprattutto le comunità cattoliche che si vedevano accerchiate e contestate nelle identità più gelose, come la solidarietà o la sussidiarietà.
In realtà, il messaggio che lascia monsignor Bettazzi, nella sua radicalità, spinge a tornare a un altro crinale storico per capire le origini di quella dinamica che oggi archiviamo come eurocomunismo. Il riferimento è al triennio 1962-1964, che in un mio libro (Avevamo la luna, edito da Donzelli) descrivo come il tempo della vera sfida alla destra nazionale e internazionale, da parte di un possibile miracolo italiano. In quella manciata di mesi, circa una trentina, si concentrano infatti opportunità e opzioni che danno un senso completamente diverso al Bel Paese. E portano la sinistra a chiedersi come siano state sprecate tali occasioni.
Siamo in un’Italia che ancora sta spalando le macerie della guerra. Dove il miracolo economico si nutre di bassi salari e abbondante manodopera pronta a spostarsi da un capo all’altro dello stivale, per favorire i grandi centri industriali nel triangolo Milano-Torino-Genova. Un’Italia agroindustriale, che in pochi anni divenne il laboratorio di una via nazionale allo sviluppo sia industriale sia sociale.
A Ivrea Adriano Olivetti cambia la strategia del suo gruppo – il secondo del Paese con 35mila occupati – che dalle macchine da scrivere e gli arredi d’ufficio si concentra sull’informatica individuale, attorno al prototipo di Programma 101, il primo personal computer; all’Eni Enrico Mattei inserisce l’Italia nel novero dei Paesi che concorrono alle nuove dinamiche del mercato petrolifero; Giulio Natta reinventa la plastica, per cui avrà il Nobel nel 1963; Felice Ippolito, presidente del Cnen, ingegnerizza la prima centrale civile elettronucleare, riducendo potenzialmente la nostra dipendenza dagli idrocarburi; il comandante Broglio, con la nascente agenzia spaziale, manda quattro satelliti nello spazio. L’Italia si colloca così sulla cresta dell’onda tecnologica, con una strategia e un orizzonte del tutto originali in Europa e autonomi in Occidente. Le ambizioni innovative portano il Paese a praticare i nuovi linguaggi dell’immaginario: Fellini, Visconti, Antonioni, Rosi spingono il cinema italiano ai vertici mondiali. Musica e automobili portano in piazza le frenesie giovanili. Il Paese si mette a correre.
In quei mesi, l’Italia si trova sotto gli occhi del mondo anche per altri motivi. L’11 ottobre 1962, si apre a Roma, il Concilio Vaticano II, in cui la Chiesa – e Bettazzi ne sarà uno dei giovanissimi protagonisti – fa i conti con la modernità, modificando principi e dogmi fondanti, come la collegialità delle decisioni e l’infallibilità del pontefice. Un evento che innesterà, in un Paese allora strettamente cattolico, processi di disarticolazione ideologica e sociale, che renderanno più dinamica la relazione fra culture e ceti sociali. La famiglia non è più una fortezza gerarchica, e la scuola comincia a covare le irrequietezze che diverranno la ribellione del 1968.
A Bologna, culla di una sinistra efficientista, il Pci comincia a fare i conti con una sinistra cattolica che, senza complessi di inferiorità, parla direttamente agli operai. Lercaro, vescovo della città – sull’esempio di Giuseppe Dossetti, ex dirigente Dc che, dopo avere perso il braccio di ferro con De Gasperi, si fa frate –, apre un cantiere sociale di cui Bettazzi diventa il motore.
È questo lo snodo in cui la sinistra aveva la luna in tasca. Nel 1962, in un leggendario convegno sul neocapitalismo, prende forma una sinistra comunista occidentalista, che guarda a Ovest per sfidare le strategie del capitalismo americano. Ingrao, Trentin, Magri, Libertini, Foa fanno paura al vertice togliattiano, spingendo Giorgio Amendola, il garante dell’intesa fra l’ala filosovietica e la destra migliorista, a minacciare provvedimenti disciplinari. In una lunga intervista concessa a chi scrive – e pubblicata su “Infiniti Mondi”, mensile diretto da Gianfranco Nappi – Aldo Tortorella riconosce che è in quegli anni che si perde la vera opportunità di una rivoluzione democratica del lavoro in Italia.
Bettazzi aveva indubbiamente fatto la sua parte, sfidando la tolleranza riformatrice di Paolo VI, che succederà allo scomparso papa Roncalli, forzando lo spazio in cui si distingue il ruolo dell’errante da quello dell’errore, aprendo così la strada a uno scompaginamento del partito cattolico.
Ma il falò si spense rapidamente. Nel 1964 l’Olivetti arriva alla cessione della sua divisione elettronica alla General Electric. La Montedison di Natta divenne, con Eugenio Cefis, incubatrice di manovre pregolpiste, nel vuoto lasciato dalla morte misteriosa di Mattei. Elettro-nucleare e spazio furono abbandonati sulla spinta del Dipartimento di Stato americano, che ricordava a Fanfani che l’Italia non aveva vinto la guerra. In questo riflusso, la morte di Togliatti incoraggiò un’istituzionalizzazione del Pci, che poi Berlinguer provò a forzare con l’idea di un compromesso storico, che divenne però salvataggio della Dc ed eccitazione di un terrorismo di sistema.
Ricordare questi eventi, usare l’eredità di Bettazzi (ma anche quella di Berlinguer) per aprire una riflessione sui limiti di una sinistra che si dimostrò timida e incerta ogni volta che la storia si muoveva, ci dice perché oggi siamo, in un certo senso, all’ultimo tornante di quelle contorsioni.