I magistrati devono lasciare la politica fuori dalle proprie rotte: questo il senso ultimo, e non originale, della controriforma della giustizia che la destra sta tentando. Era il sogno di Berlusconi e dei suoi sodali, è il sogno oggi di Meloni e fratelli, lo è stato anche di Renzi. Ebbene, il caso Delmastro (Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia), per la sua evoluzione, si profila come un piccolo modellino di questa idea della giustizia asservita.
Il sottosegretario è stato accusato di rivelazioni di segreti d’ufficio al suo collega-coinquilino Giovanni Donzelli, uomo forte di Fratelli d’Italia, a cui aveva consegnato i verbali sul caso Cospito (l’anarchico in carcere che, pur avendo tante ragioni dalla sua, ha fatto una pessima campagna gradita ai boss mafiosi contro il “carcere duro”). Donzelli, dal canto suo, usò pubblicamente quelle informazioni (che riferivano di conversazioni tra detenuti al 41-bis, tra i quali Cospito) come arma contro le opposizioni, in particolare contro alcuni esponenti del Pd, che meritoriamente erano andati a fare visita al detenuto anarchico in sciopero della fame per protesta contro il suo stato di detenuto.
Questi i fatti. La procura di Roma ha ritenuto di chiedere l’archiviazione del caso: cioè ha riconosciuto che, sì, erano stati rivelati segreti d’ufficio, ma che non si potesse provare la consapevolezza di Delmastro. A quel punto, visto che spesso c’è un “giudice a Berlino”, il gip del tribunale di Roma, Emanuela Attura, ha detto “fermi tutti”: Delmastro è un avvocato, oltre che un politico di lungo corso, davvero si vuole sostenere che soggettivamente non c’è il reato, cioè che non sapeva che le carte che aveva in mano erano segrete (come del resto è per gran parte degli atti della pubblica amministrazione)? È dunque scattata la richiesta di imputazione coatta, prevista dall’ordinamento quando, appunto, un pubblico ministero appare… dormiente.
Vista in punta di diritto, la vicenda in sé dimostra che giudici e procuratori non sono un blocco unico, e che i primi sono autonomi dall’orientamento degli altri: peraltro questo già lo sapevamo ampiamente, visto che in fase giudicante abbiamo visto capovolgere le richieste di pm che avevano il favore della stampa e dell’opinione pubblica (gli esempi sono tanti, si pensi ai processi Andreotti o al più recente Stato-mafia).
Eppure, tale è l’astio di certa politica nei confronti di un potere autonomo che anche questa specifica circostanza del caso Delmastro (come quello relativo al caso Santanchè, la ministra del Turismo menzognera e piena di debiti) ha fatto scattare Palazzo Chigi, con una nota anonima – sotto la dizione “fonti di Palazzo Chigi”, in realtà ispirata da Meloni stessa, come poi si è appreso – che accusa la magistratura di volere far politica accanto alle opposizioni (e per fortuna non hanno detto accanto ai “comunisti”, come faceva la buon anima di Silvio – i tempi sono cambiati solo per quello).
Siamo dunque sempre lì. La politica vuole le mani libere e intanto ha predisposto un disegno di legge (firmato dal guardasigilli Nordio), che prevede il primo affondo: l’abuso di ufficio scompare, riduce drasticamente la portata del traffico di influenze illecite, amplia i divieti per i giornalisti in materia di intercettazioni, non sarà più possibile per il pm impugnare le sentenze di assoluzione (a meno che non si tratti di reati particolarmente gravi), mentre sulla richiesta di custodia cautelare in carcere si dovrà pronunciare un giudice collegiale e, prima della decisione, l’indagato dovrà essere interrogato dal giudice, pena la nullità della misura: quest’ultima la novità più demenziale – prima che uno venga arrestato, gli si dà il tempo, se vuole, di darsela a gambe. Non è un decreto legge, andrà alle Camere, prima in quella alta – il senatore Renzi si è fatto trasferire apposta nella commissione Giustizia per poterla sostenere, come poteva perdere questa occasione?
Il capo dello Stato Mattarella, che dovrà controfirmare l’atto del governo, è già stato avvisato dallo stesso Nordio: non si inventi nulla: prima si va in parlamento, poi si vedrà quando dovrà promulgare, semmai. Intanto, la maggioranza prepara i coltelli per l’affondo: la norma sulla separazione delle carriere nella magistratura, anticamera di una controriforma che creerà un canale diretto di controllo dell’esecutivo sulla pubblica accusa. È il sogno di un potere profondamente antidemocratico, tutore di interessi speculativi e parassitari, che si sta avverando. Si dice che Giorgia Meloni ogni tanto pensi al suo passato di iper-giustizialista, sedicente “figlia” del martirio di Paolo Borsellino (uomo di destra, Falcone era citato meno negli ambienti dei camerati), ma poi le passa. Guarda dritto, per lei il principio di legalità – “i magistrati sono soggetti solo alla legge” – non conta, non sa neanche che è scritto nella Costituzione, lei non vede l’ora di chiamarne uno al telefono e dargli ordini.