“Per molti in questo sistema economico la fame non è un problema ma è una risorsa”. Una brutale, disincantata e lucidissima constatazione, attorno a cui ruota tutto il furioso libro di Francesca Coin Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi). L’indigenza, la mancanza di sostentamento autonomo, che paralizza ancora milioni di persone, persino nel cuore della società dell’abbondanza – scrive l’autrice – è proprio quella condizione che permette di offrire lavori sottopagati e vessatori, vere e proprie schiavitù moderne. Senza una fame di massa il sistema si inceppa.
Nella sua apparente semplicità, quasi un ragionamento naif, in cui si spiega che la miseria impone e autorizza lo sfruttamento, l’argomentazione della Coin sintetizza brillantemente l’attuale meccanismo psico-economico che spinge decine e decine di milioni di persone a vivere solo per potere svolgere un lavoro che non permette loro di vivere. I dati e la documentazione sono implacabili: nel mondo circa un miliardo di persone vive nelle condizioni di potersi sostentare per ricominciare a lavorare il giorno dopo. Un meccanismo che ha, appunto, come premessa il fatto che queste centinaia di milioni di persone che convivono nelle grandi metropoli dello spreco e dei consumi affluenti letteralmente non hanno la possibilità di sfamarsi, se non sottoponendosi a uno sfruttamento intensivo a 4-5 euro l’ora, con orari di 13-14 ore per almeno sei giorni a settimana. Non stiamo rievocando gli scenari di Dickens, nella Manchester indagata da Engels. Siamo a Chicago, a Pechino, a Barcellona, a Dublino, a Milano, a Roma. Siamo nelle patinate agenzie pubblicitarie, nei sofisticati centri di moda, nei ristoranti pluristellati. Siamo insomma nelle vetrine del mercato.
Il libro ha anche il merito di scavare nei cunicoli della sociologia del lavoro indipendente, e incontra quelli che prima di tutti, e per lungo tempo, con metodo e passione, hanno intuito e seguito i sassolini bianchi degli infiniti Pollicino che si perdevano nel disfacimento della fabbrica. Parliamo di quella comunità di ricercatori legati nella loro gioventù alla nebulosa di autonomia operaia, e che oggi rappresentano i più attrezzati e informati speleologi dei lavori moderni. Emendati dalle arroganti e supponenti frenesie insurrezionaliste, sono ancora loro – con cognizione di causa e confidenza non comune con gli ambienti indagati – a portare alla luce realtà che altrimenti rimarrebbero nel limbo delle indifferenziate lamentele umanitarie.
Com’è il caso della lunga citazione che si trova nel testo di Coin del saggio di Christian Marazzi intitolato Il denaro va. Esodo e rivoluzione dei mercati finanziari (Bollati Boringhieri, 1998), in cui si legge che “la fuga dal lavoro salariato è resa possibile dalla disponibilità di terre libere”, spiegando che “dove la terra è a buon mercato tutti gli uomini sono liberi, dove ognuno che lo desideri può facilmente ottenere un pezzo di terra per sé, il lavoro è carissimo”. Poche parole per smitizzare i meandri della finanza e soprattutto riproporre, sulla cresta dell’onda della società tecnologica, come oggi siano ancora le relazioni di base – di struttura si diceva una volta – che determinano la deformazione di quella borsa dei valori in cui il lavoro viene quotato sempre meno. Il rapporto fra accesso alla terra e indice di sfruttamento, che Marx aveva indagato dettagliatamente nel primo libro del Capitale, torna oggi a svelare la dinamica di questo novello mercato degli schiavi.
La leva finanziaria, i famosi tassi che la Federal Reserve americana e la Banca europea, gareggiano ad aumentare è all’origine di quella formazione del cosiddetto esercito di riserva, che tiene artatamente basso il costo del lavoro, creando quelle plebi sterminate che, allungando le file davanti a ogni pusher di lavoro, per quanto inaccettabile, rendono insostenibile ogni contrattazione, avvitando le quotazioni in una perenne corsa al ribasso. In sostanza, si aumentano i prezzi, si riduce la disponibilità di consumi alimentari, si ripropone la fame come spauracchio e si diminuiscono le condizioni retributive del lavoro. Questo è oggi il capitalismo della disperazione.
Almeno fino a quando non si innestano le “grandi dimissioni”. Cinquanta milioni di cittadini statunitensi che hanno rinunciato a un posto di lavoro nel 2022. Due milioni in Italia, che lasciano contratti a tempo determinato. Dati ovviamente meno sicuri, ma sono centinaia di migliaia, solo nelle grandi città cinesi che si definiscono “Tang Ping”, letteralmente sdraiati, e rifiutano il “modello 996” (dalle 9 del mattino alle 9 di sera per sei giorni alla settimana). Una geografia della disperazione, in cui vale il vecchio slogan degli innamorati: più di ieri, meno di domani. Più nauseati e mortificati di ieri, meno comunque di quanto inevitabilmente accadrà domani.
Il rifiuto del lavoro è sempre stata l’arma estrema dei proletari, propria delle genti che avevano solo i figli come patrimonio, quelle di cui parlava Marx. Il fordismo, come sistema sociale basato su salari meno indecenti e condizioni di lavoro più regolari, nasce per contenere questa forma anarchica di protesta: me ne vado. Fra il 1913 e il 1916 il tasso di abbandono dei posti di lavoro, dalle officine alle botteghe, scende dalla stratosferica cifra del 370% al 16%. I padroni comprendono che coltivarsi i lavoratori è una straordinaria forma di investimento sul “capitale umano”. E i lavoratori usano questa scoperta tramutandola in potere negoziale. Se si sta male tutti assieme, allora insieme se ne può uscire, è la lezione che Gramsci trasforma nel quaderno Fordismo e americanismo.
Ma nel libro di Coin il termine “assieme” simbolicamente appare come ultima parola del testo, alla pagina 277. Dopo averci raccontato come si muore di fatica e di prostrazione, prima ancora che di fame, in uno studio di architetto, o nella cucina di un grande chef, o in un ospedale in emergenza permanente, o ancora alla cassa di un supermercato, ma anche nell’attesa di una regolarizzazione all’università o in un laboratorio di informatica, o a giocare a nascondino nel retrobottega di un negozio, il cui titolare pretende di disporre della sua dipendente quando vuole. Dopo un’aneddotica che diventa storia di vita vissuta, ecco la versione moderna di quei rapporti di produzione che Bertolt Brecht considerava l’unica realtà concreta di cui un partito dovesse occuparsi. Altro che dolersi delle bestiali condizioni di lavoro dei riders: il lavoro oggi è una malattia da cui guarire, è il vero messaggio del libro. Si scappa dal lavoro non per esasperazione ma per illuminazione: per ricostruire una relazione spazio-temporale finalmente vivibile.
Se ognuno viene sfruttato a modo suo, scrive Coin, parafrasando l’impareggiabile apertura di Anna Karenina di Tolstoj, e in questa differenza si consuma il disfacimento delle relazioni di massa della vecchia società industriale, in cui partito e sindacato si sfilacciano puntualmente alla luce dei comportamenti molecolarmente difformi di ogni rapporto di lavoro, il tema che si pone è come ritrovare una bussola comune per questi milioni di sfruttati. Una bussola che non aiuti solo a mitigare, a tamponare le condizioni di vita estreme, ma ridia a questi ceti subalterni l’ambizione di riorganizzare il mondo a partire da una differente capacità di ridisegnare il proprio lavoro.
“Facciamo in Italia come fanno in Russia”, “chi non lavora non mangia”, cantavano prima le mondine e poi gli operai degli opifici da quattordici ore al giorno. Una nuova gerarchia nel lavoro era il collante che, per un secolo, ha buttato sulla bilancia il peso del proletariato nel suo insieme. Oggi che il capitale ha reagito, frantumando ogni identità di produzione, agitando lo spettro di un’automazione che trasforma l’impiego in un dono, in un’irrinunciabile occasione per la quale bisogna essere disposti a tutto, scambiando la fatica con ogni protagonismo sociale dei produttori, la partita si sposta fuori dal perimetro del lavoro, contro il lavoro. Con malcelata soddisfazione, Coin ci spiattella un report della notissima società di ricerche americana Gallup che descrive, minuziosamente, le modalità di lavoro in tutto il globo, concludendo che l’80% di chi ha il privilegio di lavorare odia il suo lavoro e chi glielo impone.
Solo sessant’anni fa si discuteva di un’aristocrazia operaia, di paghe, di retribuzione dell’esperienza, di fidelizzazione delle abilità. Oggi, spiegano gli insegnanti americani, “non possono permettersi il lusso di continuare a fare un lavoro che non gli permette di vivere”. O riportano i medici degli ospedali italiani del dopo-Covid, che non sono più in grado dopo turni di ventiquattr’ore di riconoscere un’appendicite.
Una rabbia che diventa ostilità, se non sabotaggio. La fuga dal lavoro, con un acrobatico uso delle mille nicchie di assistenza o di opportunità che la società porosa digitale consente, annuncia una prossima ulteriore radicalizzazione. La stretta finanziaria, contrabbandata per misura anti-inflazione, in realtà colpisce i livelli di resistenza di chi si esclude dal mercato del lavoro 996 per intenderci. Come commenta un esperto, che non può essere accusato di paleomarxismo, quale l’ex ministro del lavoro di Clinton, Robert Reich: “Questa non è un’inflazione da salari, ma da profitti”. In questa inflazione, lo spauracchio da abbattere è la piena occupazione che costringe inesorabilmente ad aumentare le retribuzioni. Per questo si gela l’economia per spingere più persone verso uno stato di indigenza, così da rendere accettabile il 996, le dodici ore al giorno per sei giorni a tre euro l’ora.
Siamo dinanzi a un clamoroso conflitto di classe, un conflitto dove la vita di grandi moltitudini è devastata da una subordinazione produttiva che non ammette miglioramenti. Lo vediamo perfino con quella miserabile misura che è il salario minimo. Perfino Confindustria ammette che sui grandi numeri una componente rilevante dell’apparato industriale è già su quei valori se non oltre. Ma serve avere il vuoto sotto i piedi di ogni lavoratore, serve avere l’assenza dello Stato nella formulazione delle opportunità di vita. Su questo si ingaggia il nuovo conflitto sociale, ma manca uno dei contendenti. Manca Anna Karenina, manca chi è sempre infelice a modo suo, senza coscienza di classe. Manca quel legame politico che connette il rider alla logistica, all’operaio delle aziende biotecnologiche, all’insegnante o al lavapiatti. Un legame c’è, un mediatore agisce come impresario di questo mondo: l’algoritmo.
Siamo nel gorgo di un’automazione in cui la minaccia di supersfruttamento viene integrata dalla certezza di sostituzione delle funzioni umane. Il saggio di Coin illumina questo girone dantesco, ma non allunga i suoi squarci di analisi al cuore del sistema: la potenza di calcolo.
È qui invece che sarebbe possibile innescare una nuova dinamica. Come sempre, è dal punto alto dello sviluppo che si determina lo scontro sociale: ogni sistema ha sempre una modalità di lavoro che ne determina senso e forma – scrive Marx. E oggi questa modalità è il calcolo, l’intreccio di big data e intelligenza artificiale. È in questa trama che bisogna addentrarsi, rendendo la proprietà un bersaglio e la ricerca una pratica sociale. Le figure di non-lavoratori, di consumatori al minimo, di artigiani della sopravvivenza, che fuoriescono dal mercato dei lavori a ogni costo, sono comunque utenti della rete – e con loro si può immaginare una mobilitazione sociale che ricomponga il ricercatore o il funzionario pubblico, l’insegnante o il sanitario, o ancora il giornalista, contro il fornitore di quelle tecnologie che annientano ogni protagonismo, cancellando gli spazi discrezionali. Rifiuto del lavoro e condivisione del calcolo diventano oggi due matrici per costringere il capitalismo a un tavolo di negoziato, alzandosi dal banchetto dei profitti.