Torniamo spesso a discutere della città perché la sua figura è il principale motore ed esito della rivoluzione industriale. Essa è il luogo di tutte le grandi trasformazioni (da quella agricola a quella commerciale), ma il suo sviluppo moderno è indissolubilmente legato al ciclo della produzione industriale. È all’epoca della grande industria che la mutatio rerum diventa storia prevalente e fenomeno assiale. Nel suo libro sul secolo dei Lumi, il filosofo conservatore tedesco Reinhart Koselleck ci ricorda che il fenomeno industriale è stato una grande soglia fatale, il culmine di una storia umana che ha visto molti rivolgimenti – mai però in quantità (produzione) e qualità (conoscenza) simili a quelli che abbiamo attraversato nei due secoli trascorsi.
La città inquinata
Non solo i mezzi di produzione hanno determinato l’evoluzione del fenomeno umano e cambiato radicalmente il nostro modo di vivere, anche la città testimonia di uno straordinario mutamento d’epoca. Essa, seguendo una tendenza in atto fin dal Rinascimento, diventa l’ambiente umano di gran lunga prevalente; e tuttavia, poiché il capitalismo ingigantisce i mezzi e mette tutte le forze di un Paese o di un popolo al lavoro per la produzione e il guadagno, si ingigantiscono nel tempo anche le conseguenze collaterali di questo enorme rivolgimento. Il capitalismo ha prodotto cultura, uomini nuovi, incivilimento in forma allargata, ma anche quelle che il grande economista Carlo Cipolla chiama le enormi esternalità negative che caratterizzano il nostro tempo. Il problema delle diseconomie esterne, le cui prime intuizioni si debbono al filosofo inglese Henry Sidgwick, è stato trattato da numerosi economisti, da Alfred Marshall a Arthur Cecil Pigou, ma solo più recentemente lo statunitense Kenneth Joseph Arrow ne ha definito un quadro esatto. Naturalmente l’economia liberale tratta questo problema nei termini che conosce, dove al guasto deve succedere una riparazione, e si adombra solo se la riparazione non è adeguata; ma ci sono, purtroppo, danni profondi e difficili da riparare, quelli che il modo industriale di produrre ci ha lasciato come eredità, e che si riverberano massicciamente sulla vita urbana: polveri sottili, rifiuti, piogge torrenziali, riscaldamento globale.
La città ibrida
Antoine-Laurent de Lavoisier, uno dei padri della moderna scienza, dice che nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. È la famosa legge della conservazione della massa. Aveva ragione, ma le cose cambiano di senso nel corso degli anni: c’è un certo punto in cui s’impara a parlare, un altro in cui si muore. In entrambi i casi è un soffio. Sono dettagli come le congiunzioni, gli accenti, la punteggiatura, il respiro che definiscono la natura di un testo, di una vita di un’epoca. Da un certo punto in poi, si attraversa quella soglia fatale che Koselleck situa tra la Parigi della Bastiglia e la Manchester dei telai automatici: niente è più come prima, tutto diventa più denso e veloce; i miti si ritirano nel subconscio, la religione trema e si avanza uno strano soldato che non è più la classe operaia – figura storica passeggera – ma la singolarità dell’individuo: aumentano a dismisura, in tutti i fenomeni umani, intensità, velocità, coscienza e ferocia.
La città diventa ibrida non solo perché è il luogo di approdo di molte etnie e vocazioni, ma anche e soprattutto perché nutre e alimenta molti e diversi modi di produzione. Tutti abbiamo pensato, nella crisi degli Ottanta, mentre la classe operaia inesorabilmente declinava, che si sarebbe avviata una luminosa età della conoscenza. L’abbiamo pensato perché lo pensava Marx: i Grundrisse, che contengono questa visionaria previsione, arrivano in Italia in pieno ’68. Alain Touraine, che li aveva letti prima (La società postindustriale,1967),scrive: “Il conflitto di classe non è più al centro dello scenario sociale mentre diventa cruciale la lotta per la creatività contro i poteri e le costrizioni degli apparati”. Ma non è andata così. O meglio, è stato così ma in un modo del tutto particolare. Le forze della creatività si sono incanalate per la strada più facile: la singolarità si è fatta potere in una specie di cortocircuito adrenalinico, attraverso lo spettacolo e l’informazione, troppo spesso coincidenti.
È stato lo spettacolo il modo più conveniente per il talento, qualsiasi tipo di talento, per trasformarsi in denaro, spesso senza passare per la fatica dell’impresa. Se Raymond Aron, che inveiva contro i manifestanti dai balconi del Collège de France, dicendo “diventerete tutti notai”, avesse detto “diventerete tutti giornalisti”, ci avrebbe preso più esattamente. L’unico a capire il nuovo ciclo che si stava aprendo è stato il genio disordinato di Guy Debord, che nel 1967 pubblicava quel libro presago che ha per titolo La società dello spettacolo. La società urbana si è moltiplicata e stratificata, l’industria è collassata su se stessa, il territorio urbano accoglie al suo interno le più svariate forme e mutazioni del modo di produrre ricchezza. Alla fine del secolo, mentre la classe operaia sparisce come soggetto politico, l’industria cede il timone di comando del mutamento sociale.
Milano
Milano è una città simbolo di questo fenomeno, anche se molte città italiane sono state toccate da questa scia (la Roma del cinema, la Genova dei cantautori): è in questo territorio che il cambiamento del produrre si è manifestato nella sua più cruda evidenza, quando Pirelli e Ansaldo lasciano il campo a Berlusconi e Ligresti, e poi a Manfredi Catella e Dolce & Gabbana. La società dello spettacolo, che ha tenuto per molti decenni le redini di molte grandi arene della scena contemporanea (Londra, New York, Parigi), ha avuto in Italia il suo epicentro in questa città. Intendiamoci: lo spettacolo ha sempre avuto un ruolo importante in tutte le società (dalla tragedia greca alle grandi arene romane, fino alle feste rinascimentali), ma mai nella storia le società hanno reclutato in quell’ambito le loro classi dirigenti. È la nuova realtà dei modelli di accumulazione, e non solo Bettino Craxi, che ci regala Berlusconi e il suo dominio incontrastato – un dominio che, come dicono i giornali in mortem, ha forgiato l’Italia, essendo la sintesi perfetta di questo modo di produzione: il mattone, la banca, il calcio, la televisione. Una realtà in cui il denaro si produce, come nella finanza, per “illuminazione e copia”, senza passare attraverso la fatica del prodotto.
L’emblema di tutto questo mondo è (forse) la Casa del “Grande Fratello”, messa in onda a Milano da Canale 5, ma edificata a Roma negli studi di Cinecittà. La Casa è l’emblema dell’economia a specchio e dei suoi palazzi, un’economia futile, autoreferenziale, in cui il prodotto è puramente narrativo. Ma poiché tutto passa, a un certo punto del suo sviluppo, dopo tanti “Amici”, “Drive In” e “Zelig”, questo mondo si disgrega. Internet ne disintegra la struttura, lo depotenzia dall’interno: al broad casting si sostituiscono i social media, ai conduttori con i loro cravattoni si sostituiscono le influencer con i loro abitini colorati. Berlusconi passa dal Milan al Monza, Forza Italia dal 30% all’ 8% dei voti. Con l’avvento dei social network, la società si polverizza ulteriormente, diventa liquida, i suoi strati si sovrappongono come strati di ere diverse o frantumi di ghiaccio che si accozzano tra loro.
Il mondo si complica, e noi non riusciamo più a vedere nel caos che ci circonda, perché ogni interpretazione ha un suo appiglio legittimo. Ma se la terra promessa (o almeno un esito plausibile) di questa storia cominciata a Manchester quasi due secoli fa, è davvero la società della conoscenza, se davvero questa società è l’esito di questa epoca immensa, allora c’è qualcosa che non va nella percezione e nel modo di agire della classe politica (sinistra compresa) che governa le aree più dinamiche del Paese. La rotta è incomprensibile ai più, la barca del quotidiano gira su se stessa come in un gorgo, priva di una direzione.
Miracolo a Milano
La città oggi è del tutto diversa da quella raccontata da Giorgio Bigatti e dagli altri nel loro Giunte rosse. Genova, Milano, Torino (edito da Mimesis). Allora vivevamo nell’eco degli anni Sessanta, e nell’ingenua convinzione (erede della migliore età recente di progresso umano, quella che va dal secondo dopoguerra agli anni Ottanta) che le cose si potessero governare, che si dovesse e potesse agire per il bene dei molti, e che questo compito fosse perseguibile in modo tranquillo, senza strappi e senza sforzi. È l’età delle grandi modernizzazioni che tentò Milano: reti di energia, trasporti, casa. L’età di Palme, di Mitterrand, di Moro e di Berlinguer. La force tranquille èlo slogan di Mitterrand e Séguéla per le elezioni presidenziali francesi del 1981 – ed è la sintesi migliore di quel periodo. È l’assassinio di Moro, nel nostro Paese, che lo conclude.
Quello a cui abbiamo assistito in seguito (il terrorismo, l’instabilità politica, la crisi dei partiti e delle organizzazioni di massa, Tangentopoli) è non solo il tramonto di un modello – quello della produzione e delle relazioni industriali –, ma anche un cambio dei modi di produrre la ricchezza. Un cambio reso evidente dalla trasformazione delle aree industriali milanesi in un generico incubatore edilizio: circa sei milioni di metri quadri in città e altri nove nel resto dell’area metropolitana, una trasformazione enorme, che continua indisturbata divorando gli spazi delle ex stazioni ferroviarie e ogni buco disponibile. Le classi al potere, sempre meno “borghesi”, sono oggi la forma fantasma di una classe dirigente, guidano le trasformazioni attraverso un combinato disposto di distruzione creativa, delocalizzazione, induzione dei consumi, automazione e ricombinazione (cambiamento dei profili professionali), economie di piattaforma e centri direzionali.
Tutto è mutato nella città ibrida, che se vuol rimanere vitale (e Milano in questo senso è caparbia) deve imparare a dominare un movimento confuso e sussultorio, dove “il lasciar fare e il lasciar passare” torna a scandire lo sviluppo dell’economia, dove s’incrociano generi e forme di ricchezza assai diversi tra loro in un fervido armistizio, dove convivono l’alta finanza, l’arte dello spettacolo, le start up (quella di Alberto Genovese, ironia della sorte, si chiama “facile.it”), l’enorme bacino del guadagno immobiliare, la creatività di Armani e Dolce & Gabbana, la ricerca scientifica e medica (lo Human Technopole), il potere delle accademie e delle università, il grande intrattenimento della Scala e di Mediaset, fino al turismo, una vocazione recente, che la città ha scoperto grazie all’Expo del 2015. La Milano dell’Expo, tuttavia, invece di indicare una strada ha aperto una voragine, in cui lo svariare delle soluzioni rende evidente la mancanza di un progetto.
Emoticon
In questo confuso panorama, fatto di schermi e di specchi, le emozioni e i sentimenti, in città, giocano un ruolo decisivo, e la confusione dei valori è analoga alla frammentazione dei modi di produrre ricchezza. Quando tutto s’ingigantisce e diventa più veloce, si accrescono anche le caratteristiche proprie del fenomeno umano: la sua generosità e la sua avidità. Gran parte degli esiti negativi che oggi subiamo sono dovuti alla avidità di molti imprenditori, che hanno attraversato il secolo senza etica alcuna, accomunati solo dal mito del successo e del guadagno a ogni costo.
“Avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto” – sussurra con voce stupida e gentile Valeria Bruni Tedeschi alla fine del film di Virzì Il capitale umano (2013). La frase è un preciso suggello ai decenni del grande sviluppo, anni in cui molto si è svolto per incoscienza piuttosto che per volontà, come il film suggerisce: alcune cose non si sapevano (il potere devastante dell’amianto); altre erano tristemente note ed evidenti anche nel momento in cui accadevano; altre ancora sono state dette e ridette (il cambiamento climatico), rimanendo inascoltate.
Ora, in realtà nulla è definitivo e tutto si muove. Tuttavia i segnali di decadenza della temperie intellettuale e morale della città, dopo Tangentopoli, continuano a essere evidenti e fragorosi: ha molto colpito lo scandalo di corruzione al parlamento europeo, per il fatto che è una terribile storia milanese, di gente nata e cresciuta all’ombra della Camera del lavoro (Francesco Giorgi, Antonio Panzeri), gente che ha fatto gesti difficili da spiegare e da capire, privi di senso, se non nel richiamo terribile a una generale avidità. Ha confessato Giorgi: “Ho fatto tutto per soldi di cui non avevo bisogno”. Le passioni umane, che la società dello spettacolo ha suscitato e logorato, sono un ostacolo da sormontare altrettanto grave quanto le condizioni ambientali, sanitarie e climatiche che la società industriale ci ha lasciato in eredità.
Il capitale umano
Non ci sono ceti dirigenti, chiari e coesi, a guidare questo immane rivolgimento: tutto è mescolato, tutto si rinnova in fretta e tutto permane. Il cospicuo sviluppo della creatività (moda e design), e le macchine che, per la prima volta nella storia umana, sviluppano procedure e piattaforme di calcolo mentale, autorizzavano a sperare in una società più generosa e confortevole. Invece abbiamo avuto a che fare per decenni con un’economia ammaliante e pericolosa. Fu Ennio Flaiano a dire, in tempi non sospetti: “Fra trent’anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione”.
Oggi, mentre dovremmo fare un salto verso il valore crescente della conoscenza, i veri protagonisti, i veri costruttori di questa nuova fase, non si vedono ancora all’orizzonte. Viviamo in una città confusa che cammina come ubriaca e cerca la chiave del suo futuro sotto un lampione: i figli di Berlusconi, Armani e suo fratello Emporio, come dice una vecchia battuta, Manfredi Catella, Alberto Vitaloni e le patatine San Carlo, il centro direzionale Campari a Sesto, e quel che resta di Pirelli, che stiamo di nuovo contendendo ai cinesi dopo avergliela venduta, e si trova in un viale intitolato a Piero e Alberto, dalle parti di viale Sarca, vicino al polo universitario della Bicocca, andando verso Sesto San Giovanni, l’ex Stalingrado d’Italia oggi in mano alle destre. Ma se la terra promessa (o almeno un esito plausibile) è davvero la società della conoscenza, dove macchine e uomini, in armonia, possano lavorare a una società più giusta, allora occorre un potente cambio di rotta: investimenti massicci di salvaguardia e innovazione, uno stile di governo autorevole; occorre finirla con il piccolo cabotaggio compromissorio. Dobbiamo premiare la conoscenza, l’invenzione, invece che l’esibizione e lo spettacolo. Di seguito, alcune modeste proposte, per ragionare su quel laboratorio a cielo aperto che sono le grandi città del nostro Paese, luogo decisivo per il cambiamento dell’Italia tutta:
1. La scuola. Per ricostruire forma e destino della città, occorre abbandonare il proposito, che abbiamo coltivato dagli anni Novanta, di inseguire le cento navicelle dell’innovazione, volatili start up che si muovono nell’incerto mare del profitto, e investire massicciamente nella scuola, di tutti gli ordini e gradi, senza blandire ennesime riforme. Investire sulla scuola così com’è, con i suoi edifici esausti ma con i suoi straordinari insegnanti, con i registri di carta e la sua tradizione pedagogica, la migliore del mondo, sapendo che ci sarà una grande dispersione di fondi, ma che ciò che arriverà al cuore produrrà un salto della nostra civiltà. Un’operazione alla Schumpeter, barbarica e creativa. Fare della scuola l’epicentro dell’innovazione di metodo e di merito, usare nelle sue aule tutte le tecnologie disponibili, spiegare ai ragazzi la grande storia che abbiamo alle spalle e, insieme, insegnare loro come si costruisce e si realizza il progetto in un’epoca digitale. L’etica pubblica e il rispetto, la creatività e la generosità si debbono imparare lì. Milano ha una grande tradizione in questo campo, dal Politecnico all’Umanitaria, dagli asili alle scuole Montessori: occorre mettere in linea tutte le risorse pubbliche e private per fare di questo strumento la principale leva dello sviluppo futuro della città. Concentrarsi sulla scuola rende il discorso sull’innovazione tangibile nelle aule, allena le forze che in futuro dovranno governare, assegna un ruolo chiaro a quelle figure (gli insegnanti) che debbono costituire l’architrave della nuova economia della conoscenza. Non un miliardo e mezzo di euro, come vuole il Pnrr, ma venti miliardi di euro.
2. L’ambiente. Bisogna poi, con decisione, riparare il danno che ci portiamo dietro dalla fase industriale dello sviluppo, un danno ancora irrisolto. Ha qui poco senso discutere se alcune delle esternalità siano il risultato ciclico di una evoluzione geotermica o lo specifico prodotto di un modo di produzione, di fatto ne subiamo le pesanti conseguenze, come si è visto di recente in Romagna, ed è indubbio che alcune di queste conseguenze (i guasti ambientali prodotti da un’impresa aggressiva e fossile) sono derivate dal tipo di sviluppo che pure tanta ricchezza ci ha dato. Occorre analizzare la fragilità del sistema urbano in cui viviamo (la sua esposizione ai cicli naturali e ai flussi pandemici) e la complessità dei fenomeni sociali che lo compongono. Dobbiamo obbligarci a riparare le esternalità negative prodotte dall’industrialismo con massicci interventi strutturali: riduzione delle emissioni, cura delle acque, bacini di laminazione, depuratori, ciclo dei rifiuti e, in generale, la messa in sicurezza di un territorio fragile come il nostro e di un ciclo industriale ormai malato dai troppi scarti. Non sappiamo se i nostri piccoli fiumi (il Seveso e il Lambro) siano pronti all’irruzione delle piogge che verranno: bisognerebbe occuparsene seriamente. Occorre prendere decisioni drastiche sul ciclo dei rifiuti. Non basta il lento e generoso lavorio della raccolta differenziata, occorre mettere al bando le plastiche monodose, dicendo all’industria che può fare soldi in altri modi, investendo decisamente sui mestieri che presiedono la raccolta (facendoli diventare come i tranvieri o i vigili, figure di riferimento della vita urbana). Bisogna attivare i cittadini alla cura del loro ambiente. Occorre anche tornare su vecchie soluzioni, per esempio l’incenerimento, che negli anni hanno avuto consistenti evoluzioni tecnologiche, e meriterebbero oggi una nuova opportunità con impianti più piccoli e sorvegliati. Bisogna, poi, occuparsi della bellezza in senso lato: dal paesaggio urbano alla manifattura, cosa che già facciamo e ci viene riconosciuta nel mondo, ma farla più consapevolmente, perché, come diceva Goethe, bisogna avere cura del bello, tanto l’utile si prenderà sempre cura di se stesso. Si deve dire che questa direttrice – la bellezza come forza civile – è forse la linea che meglio è stata seguita negli ultimi decenni, con le nuove grandi fondazioni private (la fondazione Prada, la fondazione Rovatti, le Gallerie d’Italia di Cariplo in piazza della Scala) e i grandi progetti pubblici (il museo del Novecento, il Mudec) e la nuova Biblioteca europea, che verrà costruita – si spera – con i fondi del Pnrr sullo scalo di Porta Vittoria.
3. La comunità. Di fronte alle crescenti diseguaglianze di reddito e di opportunità, che l’industria ha favorito e la società dello spettacolo accentuato, occorre realizzare interventi massicci nella sanità (i tempi della diagnostica sono inammissibili per chi soffre) e ricostruire, invertendo la rotta, come la pandemia ha evidenziato, attorno alle grandi cattedrali della salute una rete di medicina di prossimità: i medici di base o di famiglia. Se la gente rifugge da queste professioni, bisogna alzarne il profilo e il guadagno. Inoltre, c’è un problema abitativo: dunque va fermata, nelle aree urbane, un’edilizia esclusivamente per i ricchi. Al denaro e all’impresa occorre chiedere maggiore rispetto e più fantasia. Un’edilizia per studenti e giovani coppie deve sostituire un’edilizia per nababbi: troppo è stato concesso in questa direzione sbagliata. Casa e salute debbono tornare a essere i pilastri di uno “stato civile”, che è sempre stato l’orgoglio della comunità ambrosiana.
4. Il potere. Bisogna assuefarsi all’idea che, di questi tempi, nella città è necessario agire senza fronzoli, aumentando il carattere decisionale della democrazia. Ci sono cose urgenti da fare, e bisogna farle. Migliorare i processi decisionali è un obiettivo indispensabile. Non è questo il terreno di scontro con la destra; lo scontro è, come spesso accade, su dove prendere i soldi per fare tutto questo. È su questo punto che una destra conservatrice farà difficoltà. La risposta più onesta è che vanno presi da tutti quelli che ne hanno fatti a palate, nonostante le crisi e la pandemia (i bilanci sono documenti pubblici), dalle rendite improduttive che nel nostro Paese sono ancora molte (gli immobili sfitti o in via di degrado), agli evasori fiscali (l’adozione radicale dei pagamenti tracciabili), fino ai criminali (anche da loro si possono prendere soldi, come ci ha insegnato Pio La Torre, a cui si deve la legge sulla confisca dei patrimoni illeciti). Ma non si deve fare debito oltre misura. Bisogna difendere le prossime generazioni, dobbiamo investire massicciamente, costruendo speranza senza far esplodere il debito. L’esperienza riuscita a Genova del commissario Marco Bucci, per la ricostruzione del ponte, dovrebbe insegnare qualcosa sulle emergenze. Perfino la presenza dei “prefetti” – un tempo considerata obsoleta e a tutt’oggi ancora esistenti nel guazzabuglio di norme e istituzioni che caratterizza il Paese – potrebbe oggi venir buona per coordinare politiche di indirizzo e stimolare i sindaci a prendere decisioni impopolari quanto necessarie.
Un ordine nuovo
La città illustra la necessità d’interventi radicali per correggere le storture di un sistema produttivo caotico e i guasti di una singolarità malata di narcisismo. Inutile sperare in un’economia di soccorso e di misericordia: un’economia del dono, come la chiamano molti, ha tutto il diritto di svilupparsi, ma è una soluzione zoppa a un problema più vasto e radicale. Per attenuare le diseguaglianze, favorire la sicurezza e la crescita delle comunità, non vanno estesi i regimi caritatevoli più del necessario; si deve – come sempre in tutte le grandi fasi di passaggio – ricalcolare i valori nella distribuzione della ricchezza. Un altro fattore importante è lo stile di governo: dobbiamo considerare le città in una situazione di emergenza costante (climatica, sanitaria) affermando l’esigenza di un’azione efficace, con un minor numero di veti. Con un occhio alla situazione generale del pianeta, occorre instaurare uno stato permanente di sorveglianza ed emergenza in un territorio bello ma pericolosamente fragile come il nostro.
Va ridotto il gioco speculativo, facendo capire agli imprenditori che devono smetterla di vincere facile giocando a Monopoli sulle spalle delle comunità. Al di là delle chiacchiere sul Pnrr, non si vedono all’orizzonte interventi massicci mirati a questo scopo, mentre si favoleggia di un’opera pensata con vecchi criteri, che interviene in un luogo magico, quello tra Scilla e Cariddi. La destra non riuscirà facilmente nell’impresa di reperire i soldi per queste opere, perché per sua natura non ha la capacità e il coraggio di andarli a prendere dove stanno. Certo, se la sinistra, invece di occuparsi soltanto delle minoranze, tornasse a promuovere la difesa della terra, della ricerca e della scuola, forse smetterebbe di stagnare nel consenso elettorale. Nelle città occorrono investimenti massicci, che curino una società per troppo tempo lasciata nelle mani di incuranti specialisti del profitto e dello spettacolo.