Un incontro che si annunciava di alto profilo, organizzato la scorsa settimana dal Pd sulla digitalizzazione delle imprese, con in platea larga parte dei gruppi parlamentari. Con una battutaccia potremmo dire che, se l’obiettivo del vertice democratico era di convincere i propri parlamentari a non votare per il governo, tutto è andato bene. L’assemblea avrebbe votato una mozione di sfiducia, forse non proprio all’unanimità, ma la maggioranza non sarebbe mancata. Dura e certamente non immotivata la reprimenda contro Meloni. Meno chiaro e meno convincente, invece, il merito del tema oggi centrale per una ripresa di iniziativa delle opposizioni sui territori. Dopo molte divagazioni sui diritti civili, il Pd di Schlein si trovava per la prima volta ad affrontare un aspetto portante del sistema produttivo ed economico: le nuove imprese 4.0, e l’implementazione delle forme di intelligenza artificiale nelle produzioni.
In campo, la cosiddetta squadra della nuova segretaria, con l’ormai onnipresente Antonio Misiani, responsabile Economia del partito, insieme al team che si occupa della declamata transizione tecnologica e ambientale, come l’onorevole Anna Ascani, la neopresidente del gruppo alla Camera Chiara Braga, e le due titolari dei dipartimenti Digitale, Annarosa Pesole, e Green economy, Annalisa Corrado. Uno schieramento massiccio per un tema strategico, su cui si attendeva un’uscita non formale della segretaria, che doveva rivendicare una evidente padronanza su una materia su cui ancora poco la si è vista in azione. La campagna sul salario minimo – comunque affrontato solo in chiave politicista con il documento delle opposizioni, senza una vera analisi dell’impatto sociale e delle figure concrete che ne beneficerebbero – rimane un tema di protezione sociale, non certo una questione che modifica e articola le modalità di gestione dell’organizzazione del lavoro. Mentre oggi, con le politiche 4.0 e soprattutto le nuove prospettive dell’intelligenza artificiale, siamo nel cuore della questione sociale, dove proprietà, lavoro e sapere si combinano in formule e con dosaggi che dovrebbero essere decisi dalla politica.
Su questo siamo a un passaggio nodale. Si è esaurita da tempo la fase predicatoria digitale, in cui si trattava di spingere le imprese a misurarsi con le innovazioni di processo, o di sollecitare sostanziali innovazioni negli apparati pubblici. Ormai non si discute più se passare nel nuovo mondo, ma come passarci e con quale distribuzione dei poteri. Siamo per questo nel pieno di una “guerra digitale” che sta investendo proprio, come dice Harari, le modalità di evoluzione della specie. Una guerra in cui i grandi gruppi internazionali combattono per ridurre ulteriormente il campo del dominio a pochissimi operatori; e soprattutto siamo in un tornante in cui l’Europa sta cercando di trovare un ruolo nella competizione cino-americana nel guidare l’automazione di attività discrezionali della nostra vita mediante i dispositivi di intelligenza artificiale generativa. Sono in campo intervento e normative che archiviano la stessa, pur innovativa, legge sulla transizione digitale delle aziende: si discute oggi delle caratteristiche valoriali e predittive di questi strumenti, non solo del finanziamento per adottarli.
Poco spazio dunque alla retorica, e ancora meno all’evocazione mitologica di un digitale che di per sé può risolvere ogni problema. Il Pd, inoltre, nella discussione sull’evoluzione delle imprese 4.0, deve anche rivendicare il bilancio di una legge voluta da un governo in cui era parte importante, e rinfacciare a questo esecutivo, invece, l’assoluta latitanza, persino nella fase distributiva dei finanziamenti in questo settore.
Come dicevamo all’inizio, la pars destruens nei confronti del governo è stata puntuale: tutti gli interventi si sono soffermati largamente sulle inadempienze di Palazzo Chigi sul nuovo orizzonte digitale. Meno chiara e funzionale è stata la pars construens. La segretaria ha confermato una sua sostanziale indifferenza, se non proprio refrattarietà, all’argomento. Nonostante il profilo culturale e anagrafico l’accrediti come una millennial di complemento, nel suo scarno e fin troppo stringato intervento ha continuato a rimuovere ogni problematica dei processi sociali connessi ai nuovi sistemi intelligenti, limitandosi alla reiterata denuncia sullo sfruttamento dei lavoratori della gig economy. Ora, i riders – lo abbiamo ripetuto più volte – sono un tema su cui intervenire con forza per sanare una macroscopica ferita nella dignità sociale, ma certo non possono essere l’unico tema in discussione nel digitale. Soprattutto un partito che deve ridefinire la propria base sociale, trovando esperienze e procedure per insediarsi nei nuovi mondi delle competenze professionali e produttive non può ignorare la dialettica che divampa sullo scenario digitale, e non può non farci capire da che parte sta: chi sono i buoni e chi i cattivi.
Lo scontro in atto, fra i grandi samurai della Silicon Valley, e la contrapposizione con la Cina, ci dice che oggi si è esaurito il complesso di Camelot, quando nel digitale tutto sembrava uniformemente progressista e avanzato. Siamo nel pieno di un gigantesco conflitto socio-politico, in cui interessi, saperi, apparati e tecnologie competono per un dominio completo sui nostri comportamenti. Di tutto questo non abbiamo avuto alcun rimbalzo nella riunione. Si denunciava la totale assenza della destra su questo tema, ignorando invece che proprio il partito della premier sta lavorando per costruire una propria filiera di interessi nazionali digitali, speculando su un distorto concetto di sovranità del Paese, che ci porta a una subalternità di fondo con i grandi proprietari delle piattaforme, come l’annunciata legge sul chip italiano dimostra. Si è del tutto rimosso il progetto del cloud nazionale del ministro Colao, appoggiato dal Pd al tempo del governo Draghi, che intendeva affidare ad Amazon la vitale infrastruttura in cui depositare tutti i dati del sistema Paese.
Non si è affrontato il nodo dei dati: spingiamo le aziende a digitalizzarsi, ma non precisiamo con quali accortezze e limiti devono essere trattati i dati che i fornitori di tecnologia tendono a confiscare agli operatori italiani. Non si è fatto alcun riferimento ai distretti tecnologici e al ruolo dei centri di ricerca universitari, oggi preda delle sponsorizzazioni da parte degli Ott, che hanno occupato militarmente i dipartimenti di Ingegneria e di Informatica dei principali centri universitari del Paese. Soprattutto è mancata una riflessione sulle modalità di controllo e negoziazione dei nuovi dispositivi di AI. Eppure, proprio in Italia, si è registrato un caso che all’estero è considerato fondamentale per un nuovo diritto di trasparenza nel digitale: il pronunciamento del garante della Privacy sulla gestione dei dati e le forme di addestramento di ChatGPT apre uno spazio per gli operatori nazionali, che possono oggi integrare con maggiore consapevolezza e controllo sistemi di memorie e di automazione produttiva.
Un partito non può non intervenire su questi aspetti che afferiscono all’autonomia e alla consapevolezza nella gestione di potenze che tendono a evolvere in maniera sempre più frenetica. Soprattutto un gruppo dirigente – questo è il vero limite – non può non mostrare una padronanza sulla materia, una capacità di leggere autonomamente queste tendenze per adeguare progetti e interventi nella piena libertà cognitiva, senza dipendere da esperti o consulenti. Come ci ha spiegato Jensen Huang, il ceo di Dvidia, la grande impresa di microchip per AI, “non sarà l’intelligenza artificiale a rubarci il lavoro, ma chi la userà meglio di noi”. Quale partito per raccogliere questa sfida?