Lo aveva detto il primo ministro Benjiamin Netanyahu, alla testa del governo più a destra della storia di Israele: fermeremo a tutti i costi i “terroristi” che vogliono distruggerci, ripetendo così un mantra che ascoltiamo da decenni. Detto e fatto. Nelle ultime quarantott’ore l’esercito israeliano ha sferrato l’attacco più violento contro il campo profughi di Jenin in Cisgiordania, costruito negli anni Cinquanta per ospitare la prima ondata di sfollati del 1947, quelli della nakba (“catastrofe”). Erano almeno ventuno anni che non si verificava un evento del genere. Ovvero dal 29 marzo del 2002, quando era premier Ariel Sharon – un altro falco della politica israeliana –, che confinò per cinque mesi nel suo quartier generale di Ramallah il leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) nonché presidente dell’Anp (Autorità nazionale palestinese), Yasser Arafat, oltre a costruire un muro alto otto metri per dividere in due la Cisgiordania.
L’attacco, realizzato anche grazie all’utilizzo di droni armati, è stato del tutto simile a quelli che Israele sferra contro la Striscia di Gaza, dove, con il pretesto di cercare e uccidere i leader di Hamas o del Jihad islamico, vengono colpiti anche uomini, donne e bambini palestinesi distruggendo inoltre tutte le infrastrutture del luogo. L’attacco ha coinvolto circa un migliaio di soldati di vari dipartimenti, dai reparti dell’esercito alle truppe speciali, fino alla polizia di frontiera. L’obiettivo di questa violentissima azione militare era di cancellare l’idea di “rifugio sicuro” per i palestinesi, trasformato dalla presenza dei miliziani in “un nido di vespe”.
Pesantissimo il bilancio: mentre scriviamo si contano, secondo fonti del ministero della Sanità palestinese, tredici morti, centocinquanta feriti, mentre un altro palestinese è stato ucciso a Ramallah perché stava protestando. Israele ha dovuto invece registrare la morte di un proprio contrammiraglio. Diversi i dispersi rimasti sotto le macerie delle abitazioni colpite dai bombardamenti. In fuga tremila profughi su diciottomila presenti nel campo a causa della mancanza di elettricità e, in parte, anche di acqua. Un esodo che, secondo alcune fonti, sarebbe stato ordinato dall’esercito con la stella di Davide, il quale però avrebbe smentito tale ipotesi. “Sono circa tremila le persone che hanno lasciato finora il campo” – ha dichiarato il vicegovernatore di Jenin, Kamal Abu al-Roub, aggiungendo altresì che si stavano prendendo accordi per ospitarle in scuole e altri rifugi nella città di Jenin. Secondo quanto riferito al “manifesto” da Jovana Arsenijevic, di Medici senza frontiere. a Jenin “ci sono stati diversi pazienti con ferite da arma da fuoco alla testa e abbiamo ricevuto trentasette pazienti feriti. I raid a Jenin stanno diventando sempre più frequenti e intensi”.
L’attacco è stato immediatamente condannato dal presidente dell’Anp, Abu Mazen, che ha definito quanto sta succedendo a Jenin un crimine contro l’umanità e ha fatto appello alla comunità internazionale e alle Nazioni Unite perché fermino queste azioni criminali. Il leader palestinese ha annullato ogni contatto o incontro con le autorità israeliane sulla sicurezza, prassi di fatto interrotta da tempo. “Quello in atto è un tentativo di far detonare la situazione, per trascinare l’intera regione nella spirale della violenza” – ha denunciato il portavoce presidenziale Nabil Abu Rudeineh, secondo cui “il silenzio della comunità internazionale e degli Stati Uniti incoraggia il governo di occupazione a perpetrare i suoi crimini”.
Il raid è stato condannato dall’Egitto e dalla Giordania mentre non si hanno notizie di prese di posizione occidentali. Secondo quanto riferito da Israele, gli Stati Uniti, la Giordania e la stessa Anp sarebbero stati avvisati dell’attacco a Jenin. Hamas e il Jihad hanno annunciato vendette, che si sono puntualmente verificate: a Tel Aviv un palestinese ha investito e accoltellato otto israeliani, alcuni dei quali feriti gravemente, per poi essere ucciso da un civile armato, mentre dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati i consueti razzi verso il territorio israeliano subito intercettati dal sistema di difesa con conseguente ritorsione dello Stato ebraico, materializzatasi con attacchi dell’aviazione che non avrebbero provocato vittime. Dall’inizio dell’anno, nella Cisgiordania occupata, sono stati uccisi oltre centotrenta palestinesi, molti dei quali civili, e una trentina di israeliani. Intanto l’esercito con la stella di Davide ha dovuto fare marcia indietro prima del tempo, malgrado l’operazione militare sia stata fortemente voluta dalla destra estrema ultranazionalista e dal ministro della Sicurezza, Itamar Ben-Gvir; in un primo momento, come sottolineava il quotidiano “Haaretz”, le cose potevano andare per le lunghe. Evidentemente sono prevalse probabili pressioni internazionali.
Questa pericolosissima escalation arriva a meno di due settimane da un raid sferrato sempre dai cieli di Jenin, che aveva dato il via a un massiccio scontro a fuoco durante il quale sono morti cinque palestinesi. A questo desolante scenario di guerra dobbiamo aggiungere l’aumento esponenziale degli episodi di violenza commessi dal movimento dei coloni, oramai pienamente legittimato dalla politica israeliana, in particolare dalla destra estrema. La violenza israeliana, che da decenni regna sovrana in quell’area geografica, non ha risparmiato la comunità latina: “Negli ultimi due giorni – ha denunciato Pierbattista Pizzaballa, patriarca cattolico della Chiesa dei latini – la città di Jenin è stata sottoposta a un’aggressione da parte delle forze israeliane senza precedenti, che ha provocato molti danni anche alla parrocchia latina locale. Condanniamo – ha aggiunto il religioso – questa violenza e chiediamo un cessate il fuoco, sperando nella ricerca della pace e del dialogo per prevenire altri futuri e ingiustificati attacchi alla popolazione”.
Questo bagno di sangue si sta verificando mentre in Israele riprendono con forza le manifestazioni di protesta contro il disegno di legge che limiterebbe il potere dei giudici della Corte Suprema (vedi qui), rendendo così la giustizia israeliana dipendente dal potere politico. Un cambiamento radicale dell’assetto istituzionale dello Stato ebraico, fortemente voluto dal premier sottoposto a numerosi procedimenti giudiziari. Aggiungiamo che, per rafforzare questa dipendenza dal potere politico, il testo prevede un aumento dei membri eletti direttamente dal governo nella commissione incaricata di nominare i quindici giudici della Corte suprema. La Knessett, il parlamento israeliano, dovrebbe approvare il testo entro luglio, e, con l’avvicinarsi di questa data, sono appunto riprese le mobilitazioni. Nei giorni scorsi Kaplan Street, a Tel Aviv, si è riempita di centinaia di migliaia di persone, mentre l’autostrada Ayalon e l’aeroporto internazionale Ben Gurion sono stati bloccati dai manifestanti.
In questo movimento coloro che si preoccupano della questione palestinese, con la grave repressione di cui è fatta oggetto la popolazione, è una sparuta minoranza, riscontrabile in particolare in ciò che resta della sinistra israeliana, laburisti e Meretz, e in associazioni umanitarie. Il grosso dei manifestanti fa parte del settore moderato – di centro, potremmo dire – che ci tiene a non snaturare la democrazia israeliana. Lascia così l’amaro in bocca sapere che a poche decine di chilometri da Jenin, dove è in corso una tragedia, si inneggia alla difesa di una democrazia quanto meno “anomala”, per usare un eufemismo, della quale i palestinesi non usufruiscono affatto.