Con la proposta di un salario minimo, sottoscritta di comune accordo con le altre opposizioni, la segreteria Schlein sta entrando nel vivo di quello che è il suo compito prioritario: la costruzione di una coalizione di interessi in grado di presentarsi come un’alternativa alla destra e come il nocciolo di un programma riformatore. Poiché è accaduto in precedenza a “terzogiornale” di essere severo con la lentezza, se non altro, con cui la nuova leadership del Pd procedeva, oggi ci piace sottolineare questo significativo passo avanti. È il segno di un’attenzione al sociale, in particolare al “lavoro povero” (quelle lavoratrici e quei lavoratori, cioè, che pur sgobbando non hanno il minimo per potere campare dignitosamente), specie in un momento in cui si dice che il Paese abbia il vento in poppa (e probabilmente ciò dipende soprattutto dalla ripresa alla grande del turismo e di tutte le attività economiche a esso legate: proprio quelle in cui è più evidente il fenomeno del “lavoro povero”, oltre che precario). Ma, in un senso politico generale, è anche l’annuncio di un mutamento nei rapporti tra il Pd e le altre opposizioni, segnatamente nei confronti di quella più importante, i 5 Stelle.
Vanno messe tra parentesi le differenze, prima tra tutte quella sulla guerra – anche perché ci sarebbe sempre da sperare che, presto o tardi, i nazionalisti ucraini arrivino alla conclusione che non vale la pena seguitare a morire e converrebbe, invece, cercare la via di una trattativa. Si dovrebbero far valere i punti condivisi di un possibile programma comune, fondato su questioni come il lavoro, il reddito di cittadinanza, la sanità pubblica, i diritti civili. Su questi temi c’è già una notevole convergenza con i 5 Stelle, ed è intorno a essi che bisogna concentrarsi. Accentuare le differenze può far comodo alla opposizione interna al Pd, ma non serve al Paese. Che lo si voglia o no, infatti, anche dal punto di vista numerico, il Pd e i 5 Stelle non possono far altro che mirare a governare insieme.
La disaffezione dell’elettorato, la crescita enorme dell’astensionismo ovunque nel mondo, dipende da un insieme di fattori, non tutti facilmente affrontabili. Per quanto riguarda l’Italia, però, ce n’è uno la cui soluzione è semplicissima: basterebbe smettere di presentarsi come un’opposizione divisa. Perché un elettore dovrebbe votare per l’uno o per l’altro di due soggetti politici che, com’è evidente dai fatti, solo insieme potrebbero governare? Ciò dovrebbe essere chiaro pure a Giuseppe Conte: la rivalità elettorale – anche con il sistema puramente proporzionale delle europee del 2024 – avrebbe un significato qualitativamente diverso se fosse inteso che il Pd e i 5 Stelle hanno nel frattempo messo mano alla costruzione di un programma comune di governo. Se voglio fare emergere questo o quel punto che sta a cuore ai 5 Stelle, voterò per loro; se voglio sottolineare qualcosa che appartiene di più alla sensibilità del Pd, voterò per il Pd. In mancanza di questa competizione positiva, io elettore a votare forse non ci andrò proprio.
E sarebbe un disastro se l’astensionismo, anziché essere in parte recuperato, aumentasse ancora nel 2024. Perché c’è una destra europea all’attacco, nonostante la vuotezza dei sovranismi si sia dimostrata ancora una volta con l’impossibilità di mettere d’accordo, su un problema come quello dei migranti, Meloni e i suoi amici polacchi e ungheresi (e nonostante ci siano non poche difficoltà a tenere tutti insieme: i centristi popolari, i conservatori e l’ultradestra). Solo una massiccia partecipazione alle urne, da parte degli elettori progressisti del più vario orientamento, potrà essere quella risposta che salvi la prospettiva stessa dell’Unione europea dai suoi affossatori.