Bologna è diventata una città a trenta all’ora da pochi giorni. Com’era prevedibile, si è scatenato un dibattito sulla decisione, che non definiremmo però pubblico. Si svolge infatti essenzialmente sui social, alimentato da dichiarazioni di singoli esponenti politici tramite interviste e prese di posizione, che poi rimbalzano sui vari giornali. Non c’è un vero e proprio dibattito che coinvolga centri di ricerca, università, partiti e associazionismo politico-culturale tramite incontri, forme di attivismo civico, pubblicazioni. Ecco il primo punto da sottolineare: oggi le decisioni importanti per una città vengono prese in solitudine dai sindaci assieme ai loro staff. Non ci sono partiti a supporto, campagne informative nelle sezioni, gruppi di intellettuali e attivisti, con le direzioni dei partiti, in grado di evocare un’idea di città, di mobilità, di rapporto tra trasporto pubblico e privato, e anche di socialità – se è vero che il trasporto privato ha indirizzato la socialità delle città occidentali in una determinata direzione, spingendo sull’acquisto dell’automobile e su un determinato set di consumi. Un mondo con poche automobili non avrebbe, per esempio, quegli orrendi mercatoni delle periferie che hanno svuotato di negozi i centri cittadini, favorendo la nascita di baretti, di friggitorie (con tanto di retorica sullo street food propalata in tv) e pub, che infestano le notti dei residenti con il rumore assordante della cosiddetta movida. E così i sindaci si ritrovano soli, esposti ai vari “tiramenti” social, che sono solo gocce di risentimento avvelenato e non certo riflessioni sul futuro della città.
Il Pd non è quel partito in grado di suscitare un dibattito sul valore del limite, sul rapporto tra contemplazione e fare, sull’ambientalismo inteso non solo come rispetto della natura ma anche come modo di abitare il mondo e di condividerlo con gli altri, sulla diminuzione dell’orario di lavoro non solo come distribuzione di esso, ma come marginalizzazione della produzione, dell’impresa capitalistica, della sua importanza nella società: una società più lenta, che significherebbe anche meno frenesia dei consumi e più gioia dell’incontro, del gioco sociale in cui condividere il mistero dell’umano e, in quella condivisione, perfino riannodare il dialogo tra credenti e non credenti.
Non ci sono più gli Ingrao, i Napoleoni, i Turoldo, i Balducci – e nemmeno la memoria di essi – in partiti guidati da giovani magari bravi a comunicare, ma sostanzialmente ignoranti e senza memoria (la giovane segretaria del Pd ha dichiarato che di sera guarda le serie tv o gioca alla PlayStation). E però i sindaci delle città avrebbero bisogno di dibattiti alle altezze sopra ricordate, se vogliono difendere le loro scelte coraggiose. Perché Matteo Lepore è stato coraggioso nella sua decisione sulla “Bologna 30”. Ha voluto segnalare, tra l’altro, uno snodo simbolico per un’idea di città che deve ripensarsi tramite il limite nel nostro nuovo tempo dell’emergenza climatica e ambientale: limite di velocità, di consumo di suolo e di energia, limite di individualismo a favore di una rinnovata idea di “noi” e di collettività.
Però Lepore, come tanti altri sindaci, è solo. Ed è triste pensare che, a poco più di un mese dalla grande alluvione, i cittadini bolognesi stiano a scrivere stupidaggini sui social network in difesa della loro privatissima automobile, senza capire la posta in gioco sia simbolica sia concreta del nostro tempo.
In conclusione, sarebbe bello che ci fosse una classe dirigente di sinistra che, invece di fare post quasi nazionalistici sulla grandezza solidale e operosa della Romagna, dicesse ai burdel de paciug, i nuovi “angeli del fango”, che la loro solidarietà sarà veramente tale se saranno in grado di capire che chi fugge dalla siccità del sud del mondo ha sperimentato la stessa drammatica stretta della crisi climatica che ha devastato la Romagna. Insomma, non basta la retorica sulla solidarietà dei bravi giovani romagnoli, e neppure qualche marcia in più sul salario minimo. Ci vogliono soggetti collettivi in grado di pensare in grande, di unire i vari punti del mondo e, nel fare questo, costituirsi come soggetto politico dotato di forza perché dotato di filosofia in grado di interpretare il mondo e unificarlo. Così anche i sindaci coraggiosi saranno meno soli, e i battutisti risentiti dei social saranno spazzati via per inconsistenza politica e culturale.