È come nel 2005, quando per molte notti di seguito le periferie esplosero. Automobili, cassonetti, edifici pubblici dati alle fiamme, veloci incursioni di gruppi, anche in moto, capaci di sottrarsi alle forze dell’ordine. Il contesto è quello dell’odio (che tra l’altro è il titolo di un film del 1995, diretto da Mathieu Kassovitz). Nelle banlieues cova da tempo. Certo, la rabbia poi è innescata dai controlli di polizia a sfondo razzista – e da ultimo da un’uccisione in stile statunitense (un ragazzo senza patente al volante di una vettura, freddato da un poliziotto a Nanterre). Ma se andate da quelle parti – nei sobborghi di Parigi o a Lione, città meno “segregata”, talvolta in pieno centro –, ovunque vi siano dei ragazzi provenienti dall’immigrazione da più generazioni, vi guardano storto. Siete diversi voi da loro. E loro lo sanno. È la conseguenza, a distanza di decenni, di quel “colonialismo a domicilio”, come lo aveva chiamato Sartre, in cui era finito in larga parte il processo di decolonizzazione. Una ferita mai sanata: gli alti tassi di disoccupazione e descolarizzazione (per questo gli edifici scolastici, tra gli altri, sono presi di mira durante le rivolte) e il senso di una frustrazione antropologica: sentirsi diversi pur sotto il cielo di una stessa République.
La Francia ha conosciuto negli ultimi anni una quantità di movimenti: dai “gilet gialli” – una ribellione della provincia contro la capitale, con un tratto politicamente ambiguo e un marchio, si potrebbe dire, piccolo-borghese –, fino alla più recente, larghissima e partecipata, mobilitazione sindacale (tradizionalmente a noi più vicina) contro l’innalzamento dell’età pensionabile, che è diventata soprattutto una protesta contro l’autoritarismo di un governo centrista privo di una sua maggioranza parlamentare. Ma le fiamme delle banlieues sono un’altra cosa. E finora nessuno – nemmeno il “populismo di sinistra” di un Mélenchon, per non parlare della totale estraneazione dal problema dei socialisti, fino all’altro ieri una forza politica di governo – è riuscito a penetrare in quel malessere.
Per quanti sforzi si facciano al fine di comporre un blocco sociale, che si esprima sia in piazza sia elettoralmente (e questo bene o male in Francia c’è, a differenza che in Italia), la questione postcoloniale resta un non liquet – qualcosa, in altre parole, che non si riesce ad amalgamare in modo coerente all’interno di una linea politica. Eppure sarebbe fondamentale in Francia (così come tra poco lo sarà in tutta Europa, con buona pace delle destre che vorrebbero arrestare un fenomeno inarrestabile come quello dell’immigrazione) che una sinistra politica riuscisse a intervenire nella realtà delle banlieues. Come durante il processo di decolonizzazione degli anni Cinquanta e Sessanta, l’“alterità” dei diseredati, o di coloro che si percepiscono tali, andrebbe considerata un impulso verso un più ampio movimento di progresso. Ma la sinistra è assente: e del resto, anche all’epoca, ebbe non poche difficoltà a comprendere il problema e a schierarsi risolutamente per l’indipendenza dei popoli coloniali.
Oggi questa difficoltà a interagire con un passato che non solo la Francia ma l’intero Occidente si trascina dietro, potrebbe dipendere dal fatto che, d’altro canto, ci sono le nuove figure sociali scaturite dalla rivoluzione tecnologica che dovrebbero concorrere in modo determinante alla formazione di un blocco sociale. Ma come prescindere da questo passato che non passa? Soltanto una sinistra a più velocità storiche, che non arretri intimorita dinanzi alla diversità, e sappia mettere in campo una proposta che, in Francia, la faccia anzitutto finita con la retorica della République, potrebbe farsi carico delle potenzialità di rivolta delle banlieues, incanalandole in un processo politico che tenga conto della loro particolarità.