Fu questo uno dei più geniali e densi calembour con cui “il manifesto” di qualche decennio fa ricordava, con una manciata di parole al mondo, la sua originalità ideologica. Una sinistra comunista che voleva uscire a sinistra dalla crisi sovietica, che aveva anticipato, giocando la partita nel punto più alto dello sviluppo, proprio nell’Occidente tecnologico. Oggi, a 52 anni dalla nascita, il “quotidiano comunista” si trova più solo di quanto non fosse Praga nel mitico titolo della rivista che sanciva la rottura con il Pci di Longo e Berlinguer. Allora, nell’estate del 1969, dinanzi ai tank con la bandiera rossa, quell’esiguo gruppo di intellettuali e dirigenti politici, guardando fuori dalle finestre di Botteghe Oscure, si sentirono confortati nel denunciare l’isolamento del grande partito in un mondo che si incendiava – da Detroit a Torino, alle risaie dello Xinjiang –, come scandiva il sommario del primo numero del quotidiano, quello del 28 aprile del 1971.
Oggi, dinanzi a una nuova invasione russa, l’esile giornale di carta e di bit, che pure ha resistito alle stagioni più feroci del liberismo e del disincanto, non sa dove guardare per dare un senso a quanto accade, se non nelle stanze della sua redazione: il resto è troppo lontano e incomprensibile. In quelle stanze, è maturato il cambio della direzione. Dopo un lungo mandato – quasi 14 anni, il più lungo della storia dell’irrequieta redazione – Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco hanno lasciato la logorante responsabilità di guidare la goletta corsara. A sedersi, sulla sedia che fu di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Valentino Parlato e Luciana Castellina, arriva Andrea Fabozzi, un esperto redattore di diritto e politica, nato esattamente l’anno di avvio del giornale, allora in via Tomacelli 144.
I dati anagrafici dicono molto su quanto è avvenuto: siamo al fatidico taglio dell’ultimo cordone ombelicale che ancora connetteva i giornalisti del “manifesto” con l’atto d’origine del giornale. Rangeri e Di Francesco sono gli ultimi mohicani che ancora possono raccontare le prime riunioni per organizzare la macchina giornale, l’avvio avventuroso, la delusione elettorale del 1972, e le mille capriole con cui la testata ha anticipato, spesso, e seguito, raramente, le convulsioni della sinistra europea. La lettera di dimissioni di Norma Rangeri ci fa intendere la fatica e l’esaurimento di una lunga battaglia, non tacendo i due punti di confronto che hanno surriscaldato il clima politico negli ultimi mesi: la scelta ucraina nella guerra e l’apertura di credito alla segreteria Schlein.
L’elezione, al primo scrutinio, del nuovo direttore non annuncia cambi di pelle o correzioni di toni o di posizioni. Si tratta, come dicevamo, di un quadro che da tempo lavora nel giornale, con ruoli diversi e sempre in sintonia con la direzione. Sicuramente la cesura rispetto al passato – linguaggio, riferimenti, metodi e codici politici – sta più nel salto generazionale che in una diversa bussola ideologica. I nuovi redattori sono figli di una lunga crisi, in cui la “maturità del comunismo”, il marchio, il motore culturale che diede smalto e attrattiva al laboratorio editoriale e politico, sbiadisce nelle more di una sopravvivenza faticosa di diritti sociali e civili, in un campo accerchiato dalla destra.
Proprio oggi, invece, nel buco nero di un mondo senza sinistra, sarebbe prezioso riattivare una visione occidentalista del comunismo, esponendola all’attrito culturale e sociale con le dinamiche della società digitale. “Il manifesto”, con la lucidità di chi seppe sempre leggere Marx oltre Marx – o, meglio ancora, Marx con tutto quello che Marx mise in campo, con Il capitale ma anche con i Grundrisse – fu forse la prima scuola politica di sinistra a intuire e ad assumere come orizzonte dialettico e ideologico il superamento del lavoro e la sostituzione del sapere come nuovo mulino sociale.
Nelle duecento “Tesi per il comunismo”, che nel 1970 diedero forma al progetto politico del gruppo appena radiato dal Pci, vi sono echi ancora oggi profetici. Fondamentale la tesi 72, scritta con Lucio Magri da Marcello Cini, che già allora recitava: “L’ingresso massiccio della scienza e della tecnologia nella produzione. Lo sviluppo economico, che nelle fasi precedenti è stato soprattutto estensivo e ha trovato nello sfruttamento del lavoro e nell’impiego di risorse materiali inutilizzate i suoi elementi propulsori, si realizza ora in primo luogo attraverso il rivoluzionamento continuo delle tecnologie, dei materiali, delle professionalità, dei beni”. E aggiungeva, per non lasciare ambiguità: “La società umana, nei Paesi avanzati, è giunta a un livello in cui la fonte decisiva della produzione allargata è, o potrebbe essere, non il lavoro umano diretto ma il patrimonio sociale delle conoscenze, fino a rendere possibile una espansione costante della produzione attraverso un uso sempre più efficace del capitale costante dato, e come effetto indotto dallo sviluppo onnilaterale e complessivo della libera attività sociale”. Una visione che rimase sospesa, per certi versi addirittura rinnegata dagli stessi autori, e che avrebbe dato una forza e una consapevolezza straordinarie alla sinistra se fosse stata combinata, in quella stagione di movimenti alti e maturi, da un’accorta regia per presidiare socialmente il processo di evoluzione tecnologica.
Su questi temi, il giornale ha mantenuto un orecchio attento, ma non ha avuto la determinazione per andare oltre l’evidenza dei processi proprietari, contestando l’unicità di comando dei titolari delle grandi piattaforme. Ancora nella pandemia “il manifesto” si associava a chi vedeva i pericoli in una minacciosa espansione digitale dello Stato, e non in un monopolio privato dei dati individuali, prodotto oggi dalla potenza dell’intelligenza artificiale decentrata.
Proprio su questo crinale, la segreteria Schlein sembra ancora problematica. Sull’intera questione dei nuovi apparati di senso, dalla Rai a ChatGPT, dove pure si stanno consumando partite vitali, il nuovo Pd, che dovrebbe per natura e discendenza essere parte di una cultura digitale, appare silenzioso e timoroso. Su questo fianco, sarebbe utile una presenza più forte e combattiva del quotidiano, che recuperi sulla straordinaria previsione degli anni Settanta.
Non vogliamo certo, proprio noi, rivendicare il predominio della memoria sul ricambio. Ci chiediamo quanto rispetto al nuovo orizzonte possa dare un vertice che, per quanto giovane anagraficamente, è tutto cresciuto nelle more istituzionali e culturali di una pura contemplazione del dibattito politico tradizionale. In sostanza, ci chiediamo se il nuovo direttore del “manifesto” sia l’ultimo dei vecchi o il primo dei nuovi.