Tenere insieme tutto, è stata questa la scommessa di Putin: zarismo e spirito panrusso, la Russia degli oligarchi e una buona dose di stalinismo mediante il mito (del resto fondato) della vittoria nella “guerra patriottica” contro il nazifascismo; ma anche il nazionalismo estremo parafascista dei Dugin e, appunto, dei Wagner. A lungo l’operazione è sembrata riuscire. Ma la sciagurata invasione dell’Ucraina, con l’impantanamento in una lunga guerra di posizione, è il prisma attraverso cui viene a scomporsi l’incredibile mix ideologico messo su da questo bonapartista del Ventunesimo secolo.
Affinché l’insieme potesse tenere, infatti, era necessario che la conquista dell’Ucraina fosse davvero una “operazione militare speciale” di qualche giorno o, tutt’al più, di qualche settimana. La resistenza frapposta dai nazionalisti dell’altra sponda, sostenuti dall’Occidente, che non hanno puntato a contenere l’attacco per arrivare a una trattativa da posizioni di maggiore forza, ma alla crisi dell’avversario, sta dando i suoi frutti. Lo stregone è indebolito: i demoni che ha suscitato gli si rivoltano contro – e bisognerà vedere che cosa potrà accadere nei prossimi mesi. Putin ha evocato, nel suo discorso televisivo, lo spettro del 1917. Stavamo vincendo – ha detto in sostanza – quando le lotte intestine (la “guerra alla guerra” secondo lo slogan di Lenin) ci hanno privato della vittoria e fatto perdere una quantità di territori. Non ha ricordato i massacri, perché non gliene importa nulla; e certamente non lo spirito internazionalista dei bolscevichi e degli altri che si rivoltarono contro la guerra e lo zarismo. Resta un unico buco nero nella storia grandiosa della Russia narrata da Putin: quello della rivoluzione.
E pour cause, verrebbe da dire: il bonapartismo di Luigi Bonaparte, poi Napoleone III, era nato dalla reazione alla crisi rivoluzionaria del 1848 (diversamente da quello del predecessore che, sia pure a suo modo, può essere considerato come una prosecuzione del 1789). La base sociale di quel regime francese durato una ventina d’anni – fino alla sconfitta bellica a Sedan, nel 1870 –, era dato dai banchieri, dagli industriali che costruirono le ferrovie grazie agli appoggi di Stato, e dall’ignoranza contadina di piccoli proprietari divenuti tali grazie alla parcellizzazione della terra operata dal primo Napoleone. La Russia del nuovo zar, d’altronde, è essenzialmente quella dell’oligarchia venuta fuori dalle privatizzazioni seguite al crollo del sistema sovietico. Putin ne è stato dapprima il regolatore statale, l’arbitro relativamente esterno e il collante ideologico; poi ne è diventato nulla più che una parte, al punto da dipendere, in larga misura, da una milizia privata come quella dei Wagner.
Si potrebbe immaginare uno zarismo (parliamo di quello classico) che intraprende una guerra avendo come punta di diamante un gruppo di desperados pronti a tutto, insieme dentro e fuori l’organizzazione militare ufficiale, e comunque in grado di ribellarsi a questa? Oppure: sarebbe immaginabile un sistema totalitario come quello staliniano che affida ai privati una parte importante della gestione della guerra? Impossibile. La crisi profonda dello Stato, successiva alla implosione dell’Unione sovietica, è ancora tutta lì: nella funzione di quegli oligarchi da cui Putin ha cercato di emanciparsi e da cui disperatamente dipende – per le sorti della campagna in Ucraina e per il suo stesso destino personale.