Un mercato borderline è il palcoscenico su cui si esibivano i ragazzi che hanno ucciso il piccolo Manuel. Si può bruciare la propria vita per avere più follower? Si può documentare la propria vita borderline per fare notizia? La domanda rimbomba sui social, dove si stanno maledicendo i social. Un rito autoassolutorio in cui ognuno, dinanzi alla “banalità del male”, come avrebbe detto Hannah Arendt, scarica tutte le responsabilità sul mitico nemico del web. È lui il responsabile, grida la folla, reclamando la libertà di Barabba: è lui che parla alla nostra coscienza, che ha frustrato le nostre ambizioni, che minaccia i nostri primati! Dagli al web, dove ognuno pretende il proprio figlio dottore, si potrebbe dire, riecheggiando il famoso verso della canzone Contessa di Paolo Pietrangeli.
Non è il web l’esasperazione speculativa o individualistica, lo è il mercato esasperato, lo sfruttamento bestiale del lavoro precario, che pure non scandalizza. Anzi, si vuole più mercato e più libertà di sfruttamento: per questo si vota una destra bottegaia e autocratica. Il web ci minaccia con la sua pretesa di disintermediazione, con la sua opportunità di partecipazione, con quel fastidioso brusio di milioni di voci, che solo fino a qualche lustro fa erano rassegnate a farsi svelare dai mediatori tutte le notizie o le cure, o tutte le decisioni istituzionali. Giornalisti, politici, professionisti di ogni scienza, insegnanti e sacerdoti si accalcano per dare un calcio al corpo esangue e indifeso della rete, colpevole di avere eccitato gli istinti peggiori di quei cinque balordi che hanno causato la morte del piccolo Manuel. Certo, nessuno si interroga su come siano stati creati quei mostri, come sia venuto loro in mente, dinanzi al corpo del piccolo imprigionato nella carcassa dell’auto, colpita dal bolide degli youtuber, di reagire anticipando che tutto sarà sistemato da una generosa cifra data alla famiglia come indennizzo. Questa mercificazione della vita è figlia del web o del capitalismo? Cioè di un sistema economico ormai senza contenimenti e controlli, dove proprietà e ricchezza decidono persino chi possa essere santo, come abbiamo visto in questi giorni in Piazza Duomo a Milano.
Detto questo, bisogna comunque capire cosa realmente stia accadendo in quel Metaverso ormai realizzato in cui viviamo, dove la reputazione virtuale sostituisce ogni relazione sociale. Perché la realtà è diventata solo un bit?
“Il diritto a diventare eguali è rimpiazzato dal diritto a essere e rimanere differenti, senza che questo significhi vedersi negare la dignità e il rispetto. Le lotte di classe sono state spinte fuori dalla scena, il loro posto è stato occupato dalle lotte per il riconoscimento”. Così, nei primi anni del nuovo millennio, Zygmunt Bauman genialmente sintetizzava il senso dell’epoca in cui eravamo entrati, dandoci la bussola per interpretare quanto stava accadendo attorno a noi, con la scomposizione delle infrastrutture sociali collettive e la loro sostituzione con un individualismo competitivo di massa. Il sociologo della liquidità, marxianamente, osservava l’evoluzione dei rapporti di produzione (dalla triade lavoro di massa-consumi di massa-mass media si passa a lavoro individuale-consumi personalizzati-media on demand), e interpretava l’esplosione della rete, con i suoi fenomeni dominanti – eravamo nella fase nascente dei social – non come la degenerazione culturale dell’umanità, ma come l’affiorare del senso di sé di moltitudini fino allora escluse dalla scena comunicativa. Forse sarebbe opportuno tornare a quella riflessione dinanzi alla tragica follia consumata a Roma dal gruppo The Borderline.
Nella canea scatenata per mandare al rogo l’intero web si colgono facilmente i tratti di una gigantesca ipocrisia. I dettagli della tragedia romana che affiorano parlano innanzitutto di una corruzione del contesto complessivo in cui vivevano i cinque esibizionisti che hanno travolto l’auto di Manuel: un contesto in cui famiglie e scuola non hanno avuto modo di intercettare, e tanto meno intervenire, su una palese deviazione psicologica e comportamentale di quei ragazzi.
Un filmato, pubblicato in queste ore, mostra il giovane accusato di guidare l’auto che ha travolto la famiglia di Manuel uscire da un autosalone con una Ferrari insieme con il padre, che con lui inneggiava all’ebbrezza della velocità. Quel genitore quando ha capito che stava allevando un criminale? Quando ha intercettato la paranoia di suo figlio e dei suoi amici? Com’è stato possibile che si sia creata un’intera economia attorno alle loro spericolate performance, senza che nessuno ne percepisse il pericolo, e comunque l’effetto di destabilizzazione emotiva innanzitutto dei giovani coinvolti? Com’è possibile che si siano create società, con tanto di sedi e di consulenti, con un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro, senza che nessun cosiddetto adulto abbia avuto l’impulso di intervenire?
Siamo ormai in presenza di un processo che Yuval Harari, prestigioso socio-antropologo israeliano, sull’ultimo numero dell’“Economist” definisce “hackeraggio della specie umana”. Si tratta di un processo, centrato peraltro in pochi lustri, che ha visto l’insieme delle nostre attività, istintive e produttive, delegate a pochi centri servizi che hanno sostituito funzioni discrezionali dell’umanità, con automatismi basati appunto, come spiega Bauman, sulla seduzione “del farsi riconoscere”.
Un processo talmente esteso e profondo che non può non interrogarci sulle sue ragioni: perché ormai quasi tre quarti dell’umanità, a ogni latitudine e in ogni circostanza, si esprime esclusivamente con un unico linguaggio che utilizza per esibire la propria soggettività? Una domanda a cui non possiamo semplicemente rispondere ricordando come solo mezzo secolo fa la stragrande maggioranza di quell’umanità fosse del tutto esclusa da ogni possibilità di intervenire nell’infosfera, cioè in quella dimensione globale secondo Luciano Floridi, in cui si produce valore mediante lo scambio permanente di informazioni.
Sarebbe volgare sociologismo considerare che l’età dell’oro che qualcuno nostalgicamente richiama voltandosi verso il nostro passato era caratterizzata dal più discriminante privilegio per una quota limitatissima di umanità, diciamo non più di cento milioni di soggetti, che potevano interferire sulla diffusione di informazioni e contenuti, mentre il resto degli abitanti del pianeta era ridotto, nel migliore dei casi, a essere puri occasionali lettori di pochi scriventi.
Forse, rispondendo alla polemica che va in scena in questi giorni contro il web, si potrebbe dire, con lo stesso deprecabile oltranzismo, che in quell’epoca cosi celebrata sono stati consumati i peggiori misfatti dell’umanità, come la Shoa e il colonialismo. E non per questo abbiamo chiesto che si limitasse la circolazione di libri e dei mass media radiotelevisivi, usati dai regimi totalitari per produrre lo stato di suggestione criminale di massa.
Certo allora, ed è questa la vera differenza, si attivava una forma di attrito sociale, di contrapposizione, diciamo meglio, usando un’espressione desueta oggi, di conflitto che contestava e ribaltava i processi della storia: il fascismo fu contrastato e poi sconfitto dalla Resistenza, il colonialismo dai movimenti di liberazione, lo sfruttamento capitalista dalla lotta operaia.
Allora arriviamo al punto vero della contesa di oggi: non dobbiamo chiederci perché il web produca mostri, ma perché l’assenza di una resistenza culturale e sociale, rispetto alla deviazione che sul web producono i proprietari esclusivi delle piattaforme, induca tali fenomeni devastanti. Il nodo è come popolare questo mondo asettico, al neon, di una vita dinamica e dialettica, che possa continuamente contrapporre a valori e attività speculativi spazi alternativi che, peraltro, sono la base della rete al suo nascere.
Per fare questo, non possiamo procedere per censure o inibizioni, negando il fatto che milioni di persone trovano sulla rete le proprie opportunità di vita e di affermazione, che prima erano loro rifiutate. I proprietari dei grandi brand – da Google ad Amazon a OpenAI – hanno in ostaggio l’istinto di emancipazione e libertà di milioni di persone. Lo stesso che aveva Silvio Berlusconi, quando iniziò la sua cavalcata napoleonica nel mondo delle tv, e che poi gli fu contestata dalla mobilitazione politica e civile di una parte consistente della popolazione, che rivendicò il fatto che la tv è sempre e comunque uno spazio pubblico, e come tale va regolamentata, anche se di proprietà privata. Tanto più lo è la rete con i suoi quasi quattro miliardi di utenti.
Proprio in questi giorni il parlamento europeo ha approvato una prima stesura del regolamento sull’intelligenza artificiale. Si affermano principi importanti che, se applicati all’insieme del web, avrebbero impedito lo scempio di Borderline. L’attività dei minorenni va controllata e tutelata – si prevede nel testo di legge –, così come il potere di tracciamento e di profilazione da parte delle piattaforme. Ma come per ogni legge anche nel campo digitale le norme non bastano; ci vuole una mobilitazione sociale, che controlli e contesti deviazioni e speculazioni.
Innanzitutto famiglie e scuole, certo devono essere elementi di controllo. Così come i media devono riguadagnare il centro della scena con la loro trasparenza e professionalità nel documentare l’uso di una risorsa pubblica qual è appunto il web. Ma non basta. Bisogna mettere in campo una strategia di serrato negoziato sociale in cui soggetti forti, come le città o le università o le grandi categorie professionali, possano rimodulare il sistema mettendo mano alle dotazioni etiche e tecnologiche.
Bisogna aprire una stagione di socializzazione di questi sistemi. Un esempio può venire proprio dal mondo della comunicazione, dai giornalisti che pretendono di aprire e concordare le black box dei propri sistemi editoriali o dal sistema di produzione audiovisivo. In questo è importante seguire la vertenza degli sceneggiatori e dei registi di Hollywood, che rivendicano dalle grandi piattaforme la trasparenza sui sistemi algoritmici e la condivisione dei dati.
Molto prima di Internet, Marshall McLuhan avvertiva che “la ferrovia non ha introdotto nella società il movimento, né il trasporto, né la ruota, ma ha accelerato e allargato le proporzioni di funzioni umane già esistenti, creando città di tipo totalmente nuovo e nuove forme di lavoro e di svago”. Perché allora ci facciamo sorprendere da questa innovazione digitale? Non è un modo per ripensare una nuova lotta di classe?