Il berlusconismo è già sopravvissuto al declino del suo inventore e potrà sopravvivere alla sua morte. Le radici della formula sono nel partito-azienda: qualcosa di più del semplice partito personale, che può dissolversi come si dissolse quello di Craxi, il quale confondeva il denaro delle mazzette date alla politica con l’uso privato che pure ne faceva. Il partito-azienda è una proprietà trasferibile in base al diritto di successione, come un qualsiasi bene mobile o immobile. Forza Italia, nella sua trentennale storia, non ha mai tenuto un congresso: e le discussioni o le liti interne, che ora probabilmente ci saranno, potranno sempre essere sedate facendo valere il fatto che il marchio è proprietà della famiglia. Decide il padrone. Qualcosa che non esiste da nessun’altra parte. Perfino Trump, che è più eversivo di Berlusconi, deve fare i conti con il Partito repubblicano, con una nomination e con un competitore. Non è arbitro assoluto.
L’altra caratteristica del berlusconismo è di essere nato da un oligopolio dei media. Con le televisioni (che trent’anni fa, prima dell’esplosione di Internet, erano un formidabile agente di egemonia), con la pubblicità (Forza Italia ebbe il suo nucleo germinale in quel ramo aziendale che è Publitalia), con l’uso dei sondaggi, con il calcio, si può dire che l’industria culturale, o un insieme di agenzie dell’estetizzazione diffusa, siano arrivate a prendere il potere. L’invasione di campo della sfera politica da parte dei potentati economici è qualcosa che avviene ogni giorno: è la normale attività di lobbying che condiziona la democrazia liberale. Ma il salto di qualità che si produsse nel 1994, in Italia, era il frutto di un vuoto normativo (e del precedente interesse politico-affaristico di Craxi) che aveva reso possibile una concentrazione di potere nel campo dei media senza eguali nel mondo occidentale. Che la rottura del principio dell’autonomia della politica avvenisse in chiave populistica era nell’ordine delle cose: perché un’egemonia basata sullo spettacolo televisivo non dà certo origine a un partito di intellettuali, ma a una specie di effervescenza di massa – o per meglio dire, nel caso del berlusconismo, individualistica di massa – che è un aspetto dei populismi. La differenza con il peronismo classico salta agli occhi: nell’Italia dei Novanta non si trattava più di quella irruzione delle masse degli anni Quaranta in Argentina. E del resto la modalità comunicativa della radio – ancora essenziale nel peronismo d’antan – non era la stessa delle televisioni.
Nello smottamento virtualmente totalitario che lo sfondamento della politica da parte di un impero economico-mediatico ha provocato, c’è da chiedersi come mai Berlusconi non sia riuscito a diventare il Putin d’Italia. L’ambizione c’era. Ma bisogna anzitutto ricordare che nel 2006 una revisione della Costituzione in senso presidenzialistico fu bocciata dal referendum successivo: a riprova del fatto che, nonostante il berlusconismo abbia goduto di una maggioranza relativa, non è mai stato maggioranza assoluta nel Paese. E c’è poi un’altra ragione. La natura stessa del partito-azienda, nato per difendere degli interessi privati, impedisce di portare fino in fondo l’erosione o eversione del sistema democratico. Come si vide chiaramente nel 2011, quando furono gli stessi sodali in affari, e i figli, a dire a Berlusconi di dimettersi da presidente del Consiglio nell’interesse delle aziende, anch’esse minacciate dal rialzo dello spread e dal sexgate in cui il tycoon si era cacciato.
I populismi contemporanei sono in generale delle forme di bricolage politico che riutilizzano elementi dei totalitarismi novecenteschi “in sospensione” nel mondo contemporaneo. Rientrano perciò in una “contemporaneità del non-contemporaneo”. Così pezzi di razzismo, di sessismo, ecc., si coagulano, sotto la bacchetta dello stregone populista, per dare luogo a qualcosa che, nello stesso tempo, è in continuità e discontinuità con il passato. Può anche trattarsi della riattivazione ideologica di una grandeur trascorsa, come quella dell’impero zarista nella Russia di Putin, peraltro già riadattata sotto il dispotismo staliniano.
Nel caso italiano, gli sparsi elementi fascisti “in sospensione” nella democrazia repubblicana sono lì da sempre. Certo, il dominante clima neoliberale – con il menefreghismo nei confronti della riduzione delle diseguaglianze e tutto il resto – ne ha favorito i processi di catalisi. Ma in tutt’altra epoca, nel caso di Achille Lauro (non il cantante, ma il sindaco di Napoli negli anni Cinquanta), che aveva avuto rapporti diretti con il fascismo prima e con il qualunquismo poi (senza contare l’esperienza dell’Argentina peronista, con cui aveva relazioni in quanto armatore), troviamo in nuce gli stessi ingredienti del berlusconismo: il calcio (Lauro fu presidente della squadra del Napoli), la costruzione di un rapporto diretto (carismatico o pseudo-tale) con la massa, il sessismo. Francesco Rosi, il regista delle Mani sulla città, un film che certo non dovette far piacere a Lauro, fu chiamato dall’armatore per chiedergli di metterlo in contatto con l’attrice Rosanna Schiaffino: per lui le donne erano solo da portare a letto, grazie al nesso di potere e denaro.
È vero che il virilismo ha lasciato oggi il posto a un maschilismo depressivo, di cui le “cene galanti” di Berlusconi sono un esempio, com’è stato ben messo in luce da Ida Dominijanni. Ma sarebbe sbagliato ritenere che il berlusconismo sia un semplice aspetto del consumismo, o del cosiddetto “godimento” (che ha poi un’assonanza con l’“edonismo reaganiano”), o comunque una manifestazione compiuta del neoliberalismo. Gli elementi sparsi che ha coagulato nella vita sociale italiana erano presenti già da prima, nella fase antecedente a quella di un consumismo che sarebbe esploso solo negli anni Sessanta, e avrebbe avuto uno sviluppo maggiore negli anni Ottanta, quelli della “Milano da bere” e del decollo, appunto, dell’impero mediatico.
L’assenza di riforme, o meglio di controriforme liberiste radicali, durante i governi berlusconiani dovrebbe servire a chiarire questo punto. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori fu alla fine manomesso da una variante “berluschina” del berlusconismo collocabile nel centrosinistra, non dallo stesso Berlusconi. Il suo fu piuttosto un immobilismo agitato, teso unicamente alla conservazione. È probabile che negli sviluppi ulteriori, postberlusconiano-meloniani, sia superata l’impasse dovuta alla natura stessa del partito-azienda, che aveva anzitutto da difendere gli interessi aziendali – oltre che quelli giudiziari di un personaggio che, per un insieme di ragioni, si trovava sempre sul limite della galera. Ma la formula politica che il berlusconismo ha dischiuso o fortemente innovato – un “centro” che non è centrista ma solo un modo di travalicare la stessa distinzione destra/sinistra a favore di posizioni proprie di una destra estrema –, che è poi la sostanza dei populismi, la loro natura illiberale, quella resterà.