C’era una volta l’America: era l’America dei diritti civili – propugnati anche se non sempre rispettati –, delle libertà, dell’uguaglianza di genere. Erano gli anni dell’Estate dell’amore, di Woodstock, di All You Need Is Love, della protesta e del cambiamento: quegli anni Sessanta in cui impegno civile e liberazione sessuale sembravano andare di pari passo per trasformare la società e renderla più giusta, soprattutto meno oppressiva. Essere gay o lesbica, o dio non voglia transessuale (tutti questi termini non esistevano allora), non era facile in America, era anzi molto peggio che in Europa. Qui non ne potevi parlare: c’era la sanzione sociale, l’emarginazione, le allusioni lubriche; lì c’era tutto questo e in più la sanzione penale: le sodomy laws prevedevano fino a dieci anni di carcere per chi commetteva quelli che erano chiamati “abominevoli atti contro natura”; ed era già un miglioramento rispetto alla tradizione anglosassone che fino a metà Ottocento prevedeva la condanna a morte per impiccagione degli omosessuali.
In Europa era diverso: c’era stata la Rivoluzione francese e il Code Napoléon, e da allora in Francia essere omosessuali non era stato più un reato; in Italia gli omosessuali dovettero aspettare fino al 1890, quando il codice Zanardelli cancellò il reato di omosessualità, e neppure il fascista codice Rocco, di un regime che esaltava la mascolinità, poté o volle reintrodurlo.
In America la liberazione gay incominciò con la rivolta della Stonewall Inn, un locale del Greenwich Village a New York. Dopo l’ennesimo assalto da parte della polizia che, non contenta del solito pizzo, aveva sfasciato tutto e malmenato i poveri avventori, scoppiò una rivolta. Era l’ottobre del 1969, le variegate tribù del Village si radunarono rapidamente: beatniks, hippy, refuseniks (contro la guerra nel Vietnam), vecchi socialisti, e perfino qualche comunista sopravvissuto al maccartismo. La rivolta, capeggiata da Allen Ginsberg che mantenne la calma intonando il suo Om, durò diversi giorni e alla fine la polizia e il governo di New York dovettero capitolare: per la prima volta gay e lesbiche poterono rivendicare di essere ciò che erano apertamente, senza temere il carcere e le bastonate della polizia.
L’anno dopo, in ricordo della Stonewall Riot, in varie città americane vennero organizzate marce di protesta e di orgoglio gay: nasceva il Gay Pride che da allora è stato ripetuto ogni anno ed esteso a ogni parte del mondo come rivendicazione di identità di una comunità che via via si venne allargando: dalle lesbiche, ai gay, ai bisessuali, ai transessuali a coloro che si interrogano (question) sulla propria identità sessuale: Lgbtq. Le leggi tardarono a venire, ma, alla fine degli anni Settanta, una metà circa degli Stati avevano cancellato dai loro codici penali il reato di omosessualità, anche se bisognò aspettare il 2003, e una sentenza della Corte suprema, perché il reato venisse abolito in tutti gli Stati Uniti. Anzi, alcuni Stati non lo fecero mai perché, pur sapendo che in tribunale un imputato gay sarebbe stato assolto, non perdevano l’occasione comunque di incarcerarlo, di insultarlo e picchiarlo. Però, nonostante tutto, l’America era andata avanti sulla strada della tolleranza.
Quella era l’America di allora. Oggi non più. Oggi è molto peggio. È peggio perché prima c’era la speranza del cambiamento, mentre oggi c’è la frustrazione per qualcosa che sembra non finire mai. E non solo per quel che riguarda l’identità di genere, ma nei confronti dell’insieme dei diritti civili e umani. L’anno scorso la Corte suprema degli Stati Uniti ha cancellato il diritto di aborto che era stato riconosciuto in una storica sentenza del 1973. Negli anni della presidenza Trump, e anche dopo negli Stati governati dai repubblicani, sono state approvate leggi che limitano fortemente il diritto di voto dei neri, dei poveri e degli anziani: un clamoroso passo indietro rispetto alla stagione dei diritti civili ed elettorali degli anni Sessanta. Nei confronti dei neri, delle donne e dei gay la società americana è oggi più razzista, più misogina, più omofoba di cinquant’anni fa, nonostante a livello nazionale la maggioranza della popolazione su tutti i temi che riguardano i diritti delle persone si dice favorevole. Ma negli Stati governati dai repubblicani (trenta su cinquanta), l’arretramento è netto a opera di leader locali che godono di una grande popolarità.
Uno di questi si chiama Ron DeSantis, è il governatore repubblicano della Florida, rieletto a quella carica l’anno scorso con una amplissima maggioranza. Negli anni scorsi, DeSantis si era segnalato per avere deportato alcune centinaia di richiedenti asilo dalla Florida verso Stati democratici come New York e la California per farsi pubblicità di uomo forte al comando. Poi, dopo che ha deciso di candidarsi alla presidenza, ha accentuato i tratti omofobi del suo partito, e ha fatto approvare una serie di norme discriminatorie nei confronti della comunità Lgbtq, particolarmente odiose perché prendono a bersaglio i bambini e gli adolescenti.
Qui il discorso è complesso e richiederebbe una lunga digressione. Basti dire che negli ultimi anni, in risposta all’ondata montante di razzismo e discriminazione nei confronti delle minoranze, compresa quella di genere, si è venuto sviluppando un approccio ai problemi sociali chiamato woke, cioè “vigile”, di attenzione alla pervasività della discriminazione, alle sue radici storiche e alle forze sociali, politiche ed economiche che ne sono il presupposto. Da qui l’esigenza che, nelle scuole, si insegni cosa è stata la schiavitù, e cosa è ancora oggi il razzismo, che si insegni cosa è stata ed è ancora (vedi la questione dell’aborto) l’oppressione nei confronti delle donne, cosa è stata e continua a essere la discriminazione nei confronti dei sessualmente “diversi”.
È per questo che il contrasto alla cultura woke è diventato un punto fermo per ogni esponente politico reazionario, particolarmente se repubblicano e con ambizioni presidenziali. Nel caso specifico la legge, fatta approvare da DeSantis, e a seguire da un’altra mezza dozzina di governatori repubblicani, vieta che nelle scuole della Florida si parli di identità di genere e che si possano aiutare, con il sostegno psicoterapeutico, i giovani che hanno difficoltà a trovare la propria. È una battaglia contro la libertà di insegnamento (e quindi di parola) che va di pari passo con l’altra, che vuole vietare che nelle scuole si insegni la cosiddetta “teoria critica della razza”, che altro non è se non l’interpretazione della storia del razzismo americano in chiave meno edulcorata e consolatoria. Non è detto che alla lunga queste battaglie reazionarie abbiano la meglio. La società americana è molto più aperta sulle tematiche woke di quanto la propaganda repubblicana voglia fare credere. I primi a esserne consapevoli sono i grandi gruppi economici, come la Walt Disney, che ha inserito ormai da anni personaggi gay nei suoi film e nelle sue Disneyland e Disney World (proprio a Orlando nella Florida di DeSantis!), o il colosso della vendita al dettaglio Walmart che, sui propri scaffali, offre prodotti per i Gay Pride, o la casa di abbigliamento sportivo North Face che ha diffuso uno spiritosissimo video pubblicitario che invita tutti all’“Estate dell’orgoglio”. Sì, forse dopotutto non durerà; ma intanto questa ondata sessuofoba e reazionaria sta provocando tanta inutile sofferenza, tra le donne, tra i neri, tra i gay, soprattutto tra i giovani in cerca di identità.