Sulla elegante facciata neomanierista di quello che fu il vecchio palazzo della Società Italia di navigazione, divenuto poi il palazzo della Regione, nella centralissima Piazza de Ferrari a Genova, dallo scorso Natale funziona un megaschermo. La sua introduzione è stata a lungo contrastata. Il presidente della Regione, Toti, lo voleva già dal 2016; aveva però dovuto abbandonare l’ambizioso progetto non solo perché non piaceva all’opposizione, ma soprattutto perché non convinceva i genovesi, per i quali la facciata del palazzo storico sapeva di mare, di navi, di viaggi oltreoceano e altre epoche. Poi, finalmente ottenuto il permesso, si è dato inizio al nuovo esperimento comunicativo, che già dalle sue prime sortite ha dato luogo a polemiche in città sui contenuti trasmessi dalla nuova “pelle mediatica” dell’edificio: contenuti giudicati da molti manipolativi o semplicemente volgari.
Le polemiche si sono trasformate in un’accesa protesta quando, a partire dalla notizia della sua scomparsa, lo schermo ha cominciato a proiettare un video che rimandava il volto sorridente di Berlusconi, con le date di nascita e di morte, e le scritte celebrative “la Liguria ricorda Silvio Berlusconi” e “ciao presidente”. Sulla pagina Fb della Regione sono piovuti, a centinaia, i commenti negativi, accompagnati da un hashtag #non in mio nome. In consiglio regionale il caso è diventato querelle politica, e una parte dell’opposizione ha abbandonato l’aula. Cercando di giustificare la scelta, la Regione Liguria ha comunicato che “l’Ente, su volontà del presidente Toti, ha reso omaggio a Silvio Berlusconi, uomo che più a lungo ha ricoperto l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana”. In realtà, ai genovesi Berlusconi è sempre piaciuto poco. Troppo milanese, troppo bauscia – come si dice qui –, lontano dalla mentalità austera e quasi calvinista della imprenditoria locale, e avversato da ciò che rimane di una Genova irriducibilmente socialista e solidale. Inoltre, in città, è ancora vivo il ricordo traumatico del G8 del 2001 e del ruolo che in esso giocò Berlusconi, dall’accoglienza pacchiana agli ospiti internazionali, al centro storico soffocato per settimane dalle cancellate della “zona rossa”, fino al coinvolgimento diretto del governo nelle violenze contro i manifestanti.
Al di là degli aspetti locali, e delle polemiche suscitate dalla trovata di Toti (in fondo un atto di riconoscenza dovuto, dato che il presidente della Regione deve a Berlusconi tutte le sue fortune), la celebrazione sulla facciata genovese richiama un’altra, più ampia questione, oggi all’ordine del giorno: quella della costruzione della memoria politica. La costruzione mediatica in corso post-mortem – di Berlusconi come eroe politico e popolare, e come “arcitaliano” – richiama un ben noto e studiato meccanismo di ricostruzione del passato. Si tratta di una costruzione narrativa che guarda naturalmente all’oggi, al tentativo di instaurare una memoria condivisa, spazzando via ombre sgradite. In tutte le forme di politica della memoria, per avviare un nuovo ciclo, la legittimità degli ordinamenti e delle azioni politiche precedenti deve essere definitivamente stabilita o consolidata. Il riferimento al passato, così depurato, è – si presume – sia una risorsa utile per ottenere e mantenere credibilità e sostegno, sia un momento importante per la costituzione di nuovi ordinamenti politici stabili. Nel caso di Berlusconi, il lutto nazionale e i funerali di Stato appaiono quindi un momento fondativo, più di quanto non siano una celebrazione del defunto.
Si tratta di operazioni in cui l’identità collettiva e la convinzione della comunanza vengono create e rafforzate artificialmente. Si insiste sul senso di appartenenza, con l’intento di guadagnare approvazione politica e di stabilizzare il consenso. Il balletto mediatico e istituzionale, intorno alla figura di Berlusconi e alla sua eredità politico-culturale, è perciò uno degli ambiti in cui gli attori politici competono per il potere, e tentano di raggiungere e garantire l’egemonia del discorso. Anche perché sono messi di fronte all’esigenza di darsi un profilo specifico, di spiegare in che modo sono diventati ciò che sono, così da diventare socialmente distinguibili e chiaramente individuabili.
Se l’obiettivo è rimuovere la potenza del passato, cancellandone gli aspetti sgraditi, rimane una questione aperta se ciò avvenga in maniera più efficace attraverso l’oblio o il ricordo. Un caso particolare di manipolazione è il tentativo di sottomettere il peso del passato al divieto di ricordare. Com’è avvenuto spesso nel dopoguerra in Europa, la drammatica potenza del passato incriminato è sembrata rendere preferibile evitare qualsiasi cosa che lo ricordasse anche solo lontanamente. Un’altra via – e mi pare che sia quella che si sta percorrendo – è quella in cui la cultura del ricordo assume e assorbe in sé l’opposto, con lo scopo di dissolvere il persistere di una tradizione negativa. È un processo basato sulla convinzione che la potenza dell’oblio può essere superata solo da quella del ricordo depurato dal conflitto, nobilitato, e reso così digeribile e accessibile ai più.
La beatificazione di Silvio assume quindi il senso di una giustificazione ex post dell’ultimo trentennio di storia del Paese, e al tempo stesso di fondazione di un’epoca nuova. Certo, che ne è allora della democrazia? Quanto c’è di democratico in questo processo artificiale di ricostruzione della memoria collettiva? Non c’è una risposta netta. Non va trascurato che il ricordare e il dimenticare non appartengono all’universo della morale, ma sono il prodotto di rapporti di forza politici. E ciò vale anche e soprattutto per le democrazie, che devono costantemente fare affidamento sul consenso e sulla lealtà dei propri cittadini, e devono preoccuparsi delle loro opinioni. Allora, quello che in tutta questa vicenda appare veramente importante è la consapevolezza che tra il ricordare e il dimenticare si sta giocando una partita comunicativa complessa, destinata ad avere implicazioni durevoli nel tempo; mentre a Genova, sotto i raggi del sole, la gigantografia di Berlusconi si dissolve lentamente nell’aria.