Un detenuto che si suicida fa presto a diventare statistica. Salvo casi eccezionali, poche righe in cronaca chiudono la pratica, per quanto riguarda l’opinione pubblica. Ha rotto brevemente il muro dell’indifferenza la storia di Bassem, condannato per piccoli reati legati alla droga, che è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per fatti risalenti al 2018, quando ormai era inserito da tempo nel circuito “rieducativo” previsto dalla Costituzione (permessi, semilibertà, lavoro esterno al carcere). Ha avuto il tempo di avvisare la moglie delle sue intenzioni suicide, e la moglie – questo il suo racconto – ha contattato l’istituto nel quale scontava la sua pena, senza che l’allarme fosse sufficiente per attivare le procedure necessarie a salvargli la vita.
Il caso è tanto più significativo perché non si tratta qui di un ergastolano mafioso, non si tratta di un affiliato a organizzazioni che estendono il loro potere violento e oppressivo tanto sul territorio quanto all’interno delle carceri, ma di un “pesce piccolo”, come si diceva una volta nel linguaggio fumettistico della cronaca nera. Uno per il quale, apparentemente, non c’era nessuna impellente esigenza di prevenzione (quali sono quelle che danno vita al regime carcerario afflittivo del 41-bis, giustificate dalla necessità di spezzare i legami organizzativi delle cosche: altro discorso sono le autorità che fingono di credere, come nel caso Cospito, che un “leader” anarco-insurrezionalista sia il vertice operativo di una struttura criminale che va disarticolata a partire dal carcere).
Prima che Bassem rientri nella cruda statistica (ma la vedova ha preannunciato azioni legali contro l’amministrazione penitenziaria che, a suo dire, avrebbe potuto impedire la tragedia intervenendo per tempo) merita un po’ di attenzione il XIX rapporto Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia, che qualche statistica la fornisce. “A fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti, i presenti nelle nostre carceri al 30 aprile erano 56.674”, scrive l’associazione che si occupa di tutelare i diritti nel sistema penitenziario. “5.425 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Ai posti regolamentari come è noto vanno però sottratti i posti non disponibili, che a maggio 2023 erano 3.646. Così infatti scrive il ministero nelle sue statistiche ufficiali: ‘Il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato’”. Per Antigone, quindi, a fronte di un tasso di affollamento ufficiale medio del 110,6%, quello reale va stimato al 119%, e ancor più significativo è quello delle regioni con le punte più drammatiche di sovraccarico negli istituti: se la Puglia, ufficialmente, è al 137,3%, la Lombardia al 133,3% e la Liguria al 126,5%, “considerando i posti conteggiati e non disponibili le regioni dove si registrano le situazioni più preoccupanti sono: Lombardia (151,8%), Puglia (145,7%) e Friuli Venezia Giulia (135,9%)”.
Numeri asettici ma che, proiettati sui disagi reali vissuti dalla popolazione carceraria, devono far riflettere. “A livello di istituti, i valori effettivi più alti – sottolinea Antigone – si registrano a Tolmezzo (190,0%), a Milano San Vittore (185,4%), a Varese (179,2%) e a Bergamo (178,8%)”. E le presenze crescono: “Dal 30 aprile 2022 la capienza ufficiale è cresciuta dello 0,8%, mentre le presenze sono cresciute del 3,8%. È aumentato soprattutto il numero delle donne, cresciuto del 9%, mentre l’aumento degli stranieri, del 3,6%, è più o meno in linea con quello della popolazione detenuta complessiva”.
Ma come si traducono, nella vita concreta dei detenuti, questi numeri? Un esempio pratico lo fornisce lo stesso rapporto: “Nel 35% degli istituti visitati c’erano celle in cui non erano garantiti 3 mq calpestabili per ogni persona detenuta”. Un dato che bisogna sforzarsi di immaginare proiettato nella nostra esistenza ordinaria per comprenderne l’impatto. Inoltre, rileva Antigone, “nel 12,4% c’erano celle in cui il riscaldamento non era funzionante. Nel 45,4% degli istituti visitati c’erano celle senza acqua calda e nel 56,7% celle senza doccia”.
La questione delle condizioni di detenzione si lega direttamente al tema dei suicidi in carcere, secondo i dati più recenti sarebbero 84 o 85 quelli che si sono tolti la vita nel solo 2022. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt), che fa capo al Consiglio d’Europa e non all’Unione europea, ha pubblicato il rapporto sulla sua visita periodica in Italia condotta nel periodo marzo-aprile 2022, svolta in quattro istituti presi come campione. Rapporto dal quale si evince un’attenzione quantomeno insufficiente, da parte dell’amministrazione penitenziaria, ai casi di disagio psichiatrico che sono maggiormente a rischio di una evoluzione suicidaria. Per il Cpt “le carceri non offrono un adeguato ambiente terapeutico e sistemare in carcere persone che richiedono un trattamento psichiatrico specialistico, come nel caso di pazienti delle Rems”, ovvero delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le strutture che hanno sostituito i manicomi criminali, “non è appropriato”. Servirebbe, secondo le raccomandazioni di Strasburgo, “una formazione adeguata al personale penitenziario che opera in unità con persone affette da disturbi mentali”, e comunque “le persone considerate ad alto rischio di autolesione o suicidio dovrebbero essere sistemate in celle più sicure”.
Ma il caso Bassem, uno dei tanti dei quali veniamo fugacemente a conoscenza, illumina uno degli aspetti della questione carceraria forse meno trattati dal mondo dell’informazione: la stratificazione sociale (nel senso della gerarchia criminale) della popolazione detenuta. Dopo il brusco alleggerimento del numero dei detenuti deciso dal governo Conte durante la pandemia, “le persone in carcere per pene detentive brevi – si legge ancora nel rapporto di Antigone – sono in aumento, come accade sempre quando crescono i numeri della detenzione (…). Le persone in carcere con una condanna fino a un anno sono passate dal 3,1% dei definitivi del 2021 al 3,7% del 2022, quelle con una condanna fino a tre anni dal 19,1% al 20,3%. In passato entrambi i valori erano molto più alti, nel 2011 rispettivamente il 7,2% ed il 28,3%, ma erano poi notevolmente scesi, soprattutto durante la pandemia, e tornano oggi a crescere”.
Tutto questo dovrebbe chiamare in causa la politica, che però si preoccupa in genere di alleggerire il fardello penale dei propri “simili” (al momento, per esempio, è in discussione il superamento del reato di abuso d’ufficio). Ma il vero intervento che servirebbe sarebbe quello di disboscare la giungla dei piccoli reati. E invece… consultando la voce “panpenalismo” sulla Treccani online, curiosamente fra i giuristi più critici contro la proliferazione di reati da punire col carcere per soddisfare le esigenze della politica sempre a caccia di consensi facili, c’è l’attuale ministro della Giustizia (ed ex magistrato) Carlo Nordio. Proprio lui, l’autore del grottesco “decreto rave”, poi riscritto in fretta e furia, ma pur sempre finalizzato a risolvere col carcere la presunta emergenza sociale dei festini a suon di musica e droghe nei campi e nei capannoni abbandonati. La strada da percorrere, per affrontare seriamente il tema, appare in questa fase che è ancora di inizio della legislatura, lunga e impervia.