Un’opposizione divisa incide poco nel parlamento e nel Paese. Conte dovrebbe saperlo – ma non è nemmeno questo il punto. Come leader di un Movimento 5 Stelle in evoluzione, non dovrebbe dimenticare che il qualunquismo isolazionistico grillino contribuì, una decina di anni fa, a un deciso spostamento a destra del quadro politico italiano. La caduta di Bersani dalla segreteria del Pd fu determinata (oltre che dai soliti contrasti interni al partito) dal netto “no” frapposto dai 5 Stelle al varo di un governo per il quale ci sarebbe stata una maggioranza alla Camera ma non al Senato. Con il rifiuto di arrivare almeno a un’astensione al Senato sulla fiducia a un ipotetico governo Bersani, i grillini del 2013 e la loro inverosimile armata Brancaleone favorirono il recupero e l’ascesa di Renzi (già battuto da Bersani nella corsa alla segreteria del Pd), e diedero soprattutto disco verde a governi – inizialmente quello di Letta, in seguito quello dello stesso Renzi – delle abituali e disgraziate “larghe intese”.
Conte oggi dichiara che il “campo largo” non avrebbe senso, che con il Pd si tratterebbe di intendersi di volta in volta sulle cose da fare o da proporre, che questo partito è ancora bellicista, mentre a Zelensky non può essere firmata una cambiale in bianco sulla conduzione della guerra. Su quest’ultimo punto siamo d’accordo: l’Europa dovrebbe proporre un piano per arrivare, se non altro, a un cessate il fuoco. Ma non è il Pd, e neppure i 5 Stelle, che da soli possono produrre – anche nel parlamento europeo prossimo venturo – una svolta. Ci vorrebbe per questo un ampio fronte pacifista di là da venire, da costruire con una spinta dal basso. Volere lucrare un po’ di voti alle europee del 2024, agitando la bandiera della pace, è da miopi. Anche perché si sa benissimo che la segreteria Schlein, di per sé, avrebbe già cambiato la posizione del partito sulla guerra se non dovesse fare i conti, ogni giorno, con un ceto politico interno pronto a farla cadere. Se Conte vuole dare il suo contributo a una ripresa del centrismo nel Pd, come a suo tempo fecero i grillini con Bersani, lo dica apertamente: “Preferisco un Pd più a destra perché ci lascerebbe maggiore spazio elettorale”.
Il Pd sarebbe un partito da superare o da rifare completamente. Ciò è evidente. Lo testimoniano sia gli scarsi risultati elettorali dal 2013 in poi, sia gli strani destini paralleli, opposti eppure convergenti, di due suoi campioni come D’Alema (che nel frattempo ha avuto di che pentirsi di avere rinunciato al suo partito per un agglomerato informe come il Pd) e dello stesso Renzi. Entrambi ex presidenti del Consiglio usciti dal Pd con piccole scissioni, entrambi dediti agli affari e coinvolti in vicende molto discutibili: entrambi espressione di un impazzimento della vita pubblica, indipendentemente dalle rispettive posizioni – peraltro, paradossalmente, ambedue vicine a quelle di una sinistra europea che accettava i presupposti del neoliberismo. La lotta degli ego era data, nel loro caso, da una forte somiglianza degli ego.
E tuttavia, essendo consapevoli di tutto questo, non si può negare che Schlein sia altra cosa. Venuta fuori da una pur criticabilissima elezione tramite “primarie aperte”, in contrasto con ciò che avevano deciso gli iscritti al partito, la segretaria si trova dinanzi a un’ostilità interna manifesta, dinanzi a vecchi potentati locali e a nuove aggregazioni possibili a livello nazionale capaci di fare riemergere, appena sia data loro l’occasione, un Bonaccini o chi per lui. Inoltre una porzione del partito è ancora in linea con Renzi, pronta a riallearsi con lui.
Di fronte a questa situazione – che vedrà la segretaria giocarsi tutto nelle europee del 2024, con un’asticella di sopravvivenza collocata intorno al 25% – si possono avere due atteggiamenti, da parte di chi sia interessato agli sviluppi dell’opposizione al governo in carica. Uno sarebbe quello di considerare la segreteria Schlein come un’alleata da sostenere, diminuendo il tasso di competitività insito in elezioni di tipo proporzionale come quelle europee; l’altro, invece, è quello che sta assumendo Conte, somigliante a un “tanto peggio, tanto meglio”, nell’ipotesi che un peggioramento dei rapporti reciproci e uno spostamento a destra del Pd consentirebbe ai 5 Stelle di riprendersi un primato elettorale oggi smarrito. Superfluo aggiungere che questo secondo è basato su un calcolo sbagliato, perché una parte dell’elettorato che in passato aveva scelto i grillini o è ritornata a destra o si è rifugiata nell’astensione; e, per riprendersi quest’ultima – cosa a cui anche Schlein è interessata –, sarebbero necessarie chiarezza di intenti e una piattaforma comune delle opposizioni in grado di offrire un’alternativa alla destra.