A un secolo dalla sua nascita, e a più di cinquant’anni dalla lunga stagione del ’68, che lo adottò come icona antiautoritaria, la reale e demistificata lezione di don Milani potrebbe essere laicamente letta, per meglio focalizzare le contraddizioni che ancora frenano il processo di ricostruzione della sinistra. Proprio in quell’intreccio – fra la famosa Lettera a una professoressa e l’identificazione di intere generazioni che hanno attraversato e ri-formattato la sinistra nel nostro Paese – vi è uno dei nuclei ideologici che ancora gravano sull’opportunità di fare entrare nel Ventunesimo secolo un movimento programmaticamente anticapitalista. “Se si perdono gli ultimi la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. È un notissimo quanto potente passaggio del testo di don Milani su cui ci siamo formati, nei contesti più diversi, e a volte addirittura contrapposti, a sinistra. Per molti di noi questa fu una delle porte di accesso che conduceva, da una omologante e ordinaria visione cattolica della società contemporanea, a una fiammeggiante passione per la giustizia e per l’emancipazione dei più penalizzati di questo mondo.
Le celebrazioni di queste settimane ci rimandano, nella sua intoccabilità e indiscussa uniformità, la testimonianza di don Milani come elemento costitutivo e condiviso di una sinistra che evolve. Tutto sta cambiando, potremmo dire, meno proprio il carisma di quelle parole, sostenuto e cristallizzato da una straordinaria coerenza di vita che rende il sacerdote esiliato a Barbiana appunto un mito, un Che Guevara in tonaca nera sulle colline del Mugello. “Quasi tutti gli intellettuali borghesi sono i nostri nemici” – aggiungeva ancora la Lettera, per togliere ogni dubbio su quale parte della barricata il religioso avesse scelto di stare nel conflitto sociale che divampava in Occidente. Benché don Lorenzo muoia prematuramente, esattamente un anno prima del ’68, a soli 44 anni, bruciato da una passione stroncata solo da una feroce malattia.
Se ne va in un cruciale 1967, un anno di grandi vigilie, ma anche di forti disillusioni, per il nostro Paese, in cui, a ben vedere, tutte le battaglie politiche e ideologiche che verranno presto enfatizzate – la centralità operaia, la riorganizzazione della scuola, la socializzazione di una lotta contro il capitale, la diffusione molecolare nei corpi separati dello Stato del virus antiautoritario e democratico, la stessa resistenza antifascista, in quella stagione delle stragi che sarebbe iniziata da lì a poco – si erano in gran parte già giocate e perdute. Pensiamo a quei primi anni Sessanta, in cui il rinascimento di emancipazione e sviluppo tecnologico del nostro Paese – l’Eni di Mattei, l’Olivetti di Adriano, la plastica di Natta, l’elettronucleare di Ippolito, la corsa allo spazio del professor Broglio – viene autoritariamente inibito da vincoli internazionali, mentre parallelamente appassisce lo sforzo di liberazione e riforme del primo centrosinistra. Il ’68 italiano si trova a sua insaputa già sconfitto in una guerra preventiva, condotta da un’alleanza parassitaria di ceti speculativi e proprietari, che scelgono la rendita rispetto al profitto, e tolgono dal campo di combattimento ceti sociali e figure professionali che potevano dare forza alla domanda di democratizzazione che saliva dal Paese.
Proprio negli anni in cui a Barbiana don Milani metteva nel mirino la scuola come istituzione di sottomissione dei poveri, negli Stati Uniti (siamo attorno al 1964) si giocava la partita del free software, in cui le generazioni della rivolta del free speech rivendicavano uno spazio culturale ed economico per le università, da sottrarre al controllo del dispositivo militare-tecnologico che supportava la guerra in Vietnam. La scienza diventava fabbrica, e il capitalismo stava iniziando quella trionfale marcia da Detroit alla Silicon Valley, con la quale si sarebbe sbarazzato delle catene di montaggio fordiste, contese dalla conflittualità operaia, sostituendole con un terziario cognitivo e consumista, che avrebbe poi portato direttamente all’esplosione digitale. Un tornante in cui la sinistra entrò al grido “operai e studenti uniti nella lotta”, e ancora oggi non ne è uscita, travolta dai repentini e imprevedibili sconvolgimenti sociali che hanno scomposto e riformattato sia gli operai sia gli studenti.
La sconfitta che abbiamo subito come sinistra – e che in questi anni stiamo misurando nella sua totalizzante capacità di lasciarci senza speranza, sul terreno della contesa e del controllo di quella strana società che sostituisce la produzione manifatturiera con uno scambio permanente di informazioni – la descrive nitidamente Manuel Castells quando parla di informazionalismo come alternativa dell’industrialismo: “Per industrialismo io intendo un modello di sviluppo in cui le fonti principali della produttività sono l’incremento quantitativo dei fattori di produzione (lavoro, capitale, risorse naturali) uniti all’uso di nuove fonti di energia. Con il termine informazionalismo, invece, mi riferisco a un modello di sviluppo in cui la fonte principale della produttività è la capacità qualitativa di ottimizzare la combinazione e l’impiego dei fattori di produzione sulla base dell’informazione e della conoscenza. L’avvento dell’informazionalismo è inseparabile da una nuova struttura sociale: la società in rete” (L’età dell’informazione, Bocconi editrice).
Rileggendo don Milani, alla luce di questa evoluzione e dinamica, e soprattutto riconsiderando le interpretazioni e semplificazioni di quel suo tormentato processo psico-intellettuale da parte di frettolose e disinvolte avanguardie letterarie e politiche, non può non apparirci l’abbaglio che ancora oggi grava sul campo anticapitalista. In un testo appena uscito sul tema – L’equivoco don Milani (Einaudi editore) – Scotto di Luzio decodifica lucidamente il testo della Lettera proprio alla luce di una fase in cui la cultura cattolica, per contrapporsi all’avanzata marxista, si scompose in un’ala di compromissione con il potere borghese (De Gasperi e Gedda, per intenderci), e in un altro campo di integralismo progressista (Dossetti e La Pira).
In questa seconda area don Milani radicalizza la sua critica al patto scellerato con le istituzioni di controllo politico conservatrici della Chiesa e individua nella scuola, in particolare quella pubblica, un canale di omologazione antropologica, prima ancora che ideologica, che costringe i poveri a spogliarsi di ogni identità pur di essere cooptati, seppure nei gradini più bassi, dai padroni. Una visione che poi Pasolini declinerà in un lirismo più direttamente antiborghese, in cui gli operai diventano i veri titolari del conflitto culturale. Don Milani rimane saldamente nel solco di una difesa dell’alterità dei poveri, che dev’essere tutelata e contrapposta all’inquinamento dei valori nazionali da parte di un processo che oggi definiremmo di globalizzazione. Quell’antiautoritarismo declamato dal prete di Barbiana, nel leggendario passaggio in cui scrive “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”.
Una bandiera di un movimento antiautoritario, che spaziava da Berkley a Mirafiori, arrivando fino al Xinjiang, come recita il titolo del primo numero del “manifesto quotidiano”, quello del 28 aprile 1971. Ma, in assenza di una spinta negoziale alternativa, nel pieno di una transizione dal lavoro al sapere come matrice gerarchica della società, rischia di diventare l’alibi per chi separa i due campi che oggi caratterizzano il dualismo dell’inclusione: i calcolanti e i calcolati.
Certo, la disubbidienza rimane una straordinaria risorsa per tenere aperto uno spazio di contrapposizione a una gestione proprietaria dell’innovazione, ma la trasmissione del sapere, a partire dalla contrattazione dei suoi contenuti, non può certo essere elusa in nome di una salvaguardia di uno status bucolico in cui i poveri si sentano a casa loro. Non a caso don Milani non parla mai di conflitto sociale o di controllo operaio nelle fabbriche: siamo proprio nella stagione del risveglio delle grandi aree di concentrazione del lavoro, Milano, Torino e Genova. Così come elude completamente la frontiera di un anticapitalismo che allora aveva ancora una sponda sovietica. La linea dello scontro – come rileva non senza il compiacimento di sbriciolare un mito avverso Galli della Loggia, nella sua recensione al testo di Scotto di Luzio sul “Corriere della sera” del primo giugno – è essenzialmente la lingua.
Don Milani coglie il valore omologante che la disciplina linguistica impone alle culture marginali. E arma il suo esercito nel rifiuto di questo stilema: ognuno parli a modo suo, dice, e nessuno si erga a giudice. Un percorso che, se poteva allora preservare dalle più spietate discriminazioni culturali (pensiamo ai figli degli immigrati nei primi anni Sessanta nelle scuole del Nord), con il tempo ha autorizzato la ghettizzazione di intere comunità, e oggi, con il dilagare dei linguaggi digitali, rischia di cristallizzare una separazione fra chi produce quelle lingue e chi, non esercitandole, tanto meno le può contestare.
Si tratta di rovesciare quel messaggio, figlio di un tempo ormai consumato, salvaguardandone la carica di appassionata identità e alterità rispetto alle spire di un mercato che non vuole fare prigionieri. Don Milani è stato, come tutti i simboli, innanzitutto un potente e straordinario mezzo – medium sarebbe meglio dire – di liberazione per milioni di giovani. Come tutti i simboli vale per quello che rappresentava, anche a prescindere da quello che intendeva personalmente. Ma oggi la sinistra potrebbe usarlo degnamente per riconfigurare percorsi e valori, combinando alla sua passione e coerenza quel vitalissimo messaggio di un grande leader sindacale che diceva che, per non doversi togliere il cappello davanti al padrone, un operaio deve sapere almeno una parola più di lui.