Il contratto collettivo della vigilanza privata, ovvero il più celebre dei “salari da fame”, è stato aumentato, si fa per dire, di 140 euro lordi al mese (aumento per di più non immediato ma progressivo e spalmato su più annualità). Il tutto al termine del biennio più terribile per l’inflazione da almeno trent’anni a questa parte. Un cupo segnale di quanto l’Italia sia lontana dal superare la stagione della contrazione salariale che l’ha portata ad essere fanalino di coda in Europa, con un calo nelle retribuzioni del 2,9% in trent’anni (mentre i principali partner continentali vivevano stagioni di crescita anche in doppia cifra percentuale). Coincidenza vuole che la firma sia sostanzialmente giunta in contemporanea con l’ultima relazione annuale del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, la cui devozione alla religione della “moderazione salariale” non conosce dubbi o incrinature (ne avevamo già parlato qui). E Visco in effetti non ha mancato, nelle sue “considerazioni finali”, di dedicare la sua attenzione a questo tema.
Il trauma originario
Quando una persona subisce un trauma, sia esso fisico o psicologico, gli strumenti della medicina, della fisioterapia e della psicoterapia possono venire in suo soccorso. Quando è una intera comunità ad aver vissuto dei momenti traumatici, che hanno messo in discussione schemi e certezze, è più difficile immaginare un percorso di guarigione. I traumi vissuti dagli economisti nei primi anni Settanta del secolo scorso, con l’abbandono del sistema di Bretton Woods e con gli shock petroliferi che innescarono crisi produttive e spirali inflattive diffuse restano ben presenti nella loro memoria. Visco si era appena laureato ed era stato assunto in Banca d’Italia da poco quando scoppiò la guerra del Kippur, la scintilla dalla quale partì la prima crisi petrolifera. Evocando lo spettro degli anni Settanta, Visco ricorda che “le difficoltà nel frenare la corsa dei prezzi furono acuite da fattori istituzionali e di clima sociale, relativi al grado di autonomia delle banche centrali, alla conflittualità e alle regole della contrattazione nel mercato del lavoro, alla condotta delle politiche di bilancio”.
Sindacato conflittuale, diritti dei lavoratori, spesa pubblica: tutti fantasmi che popolano ancora gli incubi del governatore uscente. E poi l’incubo peggiore di tutti, la scala mobile: “(…) i meccanismi automatici di indicizzazione delle retribuzioni ai prezzi, svincolati dalle dinamiche della produttività e combinati con un’accesa conflittualità nelle relazioni industriali, contribuirono a innescare una perniciosa rincorsa tra salari e prezzi”, ricorda Visco, che a novembre sarà sostituito. Il favorito è Fabio Panetta, già direttore generale di Bankitalia, oggi membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, il quale (probabilmente con il silenzio-assenso del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella) rifiutò nello scorso autunno la corte di Giorgia Meloni che lo voleva ministro dell’Economia ma si dovette accontentare del leghista draghiano Giancarlo Giorgetti.
La frontiera salariale
Per ora, comunque, a guardia di una frontiera (quella degli aumenti indiscriminati delle retribuzioni) meno concretamente minacciata della Fortezza Bastiani, si erge ancora Visco, il quale ricorda che le intese del 2009 fra sindacati e Confindustria sugli aumenti retributivi prendono in considerazione l’inflazione ma “al netto dei prezzi dei beni energetici importati” e quindi “l’esclusione dei beni energetici importati impedisce che shock temporanei alle ragioni di scambio si riflettano immediatamente sul costo del lavoro. Inoltre, la lunga durata dei contratti – normalmente pari a tre anni – e il ritardo con cui quelli scaduti vengono rinnovati frenano ulteriormente la reattività delle retribuzioni a shock inflattivi inattesi. Infine la scarsa diffusione di clausole di adeguamento, qualora l’inflazione effettiva superi quella prevista al momento dell’accordo, limita il rischio di una rincorsa tra prezzi e salari”.
Questa esaustiva e precisa descrizione della situazione ci riporta alla catastrofe che i lavoratori stanno vivendo in questo periodo storico soprattutto in Italia, ma è del tutto evidente che – dal punto di vista di Visco, che si concentra soprattutto sul rischio inflattivo – si tratta di notizie rassicuranti. Del resto, nella relazione annuale si legge che “secondo le indicazioni tratte dall’Indagine sulle imprese industriali e dei servizi (Invind), condotta dalle filiali della Banca d’Italia tra febbraio e maggio di quest’anno, poco meno del 40% delle aziende intervistate ha dichiarato di avere incrementato la retribuzione oraria media nei dodici mesi precedenti, sebbene in modo contenuto”. Questo accade mentre la propensione al risparmio delle famiglie, nota lo stesso governatore, “è scesa, portandosi alla fine dell’anno su livelli inferiori a quelli precedenti la crisi sanitaria. L’accumulo di risorse finanziarie non è stato sufficiente a compensare la perdita di valore reale della ricchezza finanziaria netta delle famiglie dovuta all’inflazione”.
L’inflazione non è uguale per tutti
L’aumento dei prezzi lo pagano soprattutto i più poveri, usando in senso largo questo termine che non deve portarci a immaginare senza tetto avvolti nelle coperte ai margini delle stazioni ferroviarie delle grandi città. Come si legge nella Relazione di Visco l’inflazione “ha avuto un impatto più deciso sulle famiglie appartenenti alle fasce più basse della distribuzione della spesa per consumi. Tenuto conto del diverso paniere di consumo, il divario dei tassi di inflazione fra il primo e l’ultimo quinto della distribuzione si è gradualmente ampliato nel corso dell’anno fino a 8,5 punti percentuali: circa la metà dei consumi delle famiglie del primo quinto è infatti rappresentata da beni energetici e alimentari, a fronte di circa un quarto per i nuclei dell’ultimo”. È ormai diffusa l’analisi secondo la quale dietro il boom dei prezzi ci sia un rialzo storicamente eccezionale dei profitti: secondo dati Bce negli ultimi vent’anni i profitti avevano contribuito a circa un terzo dell’inflazione domestica, mentre negli ultimi 12 mesi sono arrivati oltre il 60%. Se ne sono accorti, in questi mesi, osservatori tutt’altro che neutrali come “Il Foglio” o “Il Sole 24 Ore”.
Il tema ora sarebbe come riportare equilibrio in questa maionese impazzita nella quale affogano sempre i soliti. Ma per ora è difficile prevedere un cambio di rotta delle politiche monetarie, fiscali ed economiche di una Europa sempre più dipendente da scelte altrui: sulla guerra, sugli investimenti – che saranno convertiti dal sociale al militare senza troppi scossoni politici – sulla politica monetaria. A proposito della quale, mentre il continente rischia di avvitarsi in una drammatica recessione, la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, fa sapere di essere soddisfatta. “Nell’ultima indagine sui prestiti bancari della Bce, il ritmo dell’inasprimento netto degli standard creditizi – spiega – ha raggiunto il livello più alto dalla crisi del debito sovrano nel 2011. Questo è l’effetto desiderato della nostra politica: vogliamo che le condizioni di finanziamento si inaspriscano. E, finora, non è andato a discapito della performance delle banche, con l’impatto positivo dei tassi più elevati sui margini di interesse delle banche che ha superato l’impatto negativo sui volumi”. Le banche stanno bene, e questo mette di buon umore la numero uno di Francoforte anche se c’è “incertezza su come condizioni di finanziamento più restrittive influenzeranno l’economia”. L’incertezza c’è tutta, difficile trovare ragioni per condividere l’ottimismo di Lagarde, a fronte delle dinamiche descritte tanto da lei quanto da Visco. Ma da cittadini europei, si sa, il nostro ruolo è sempre più quello degli spettatori: senza il telecomando in mano per cambiare canale.